Curriculum Vitae
di
Patty S
Si sa, gli opposti si attraggono, si rincorrono. Come la
vita e la morte. Il bene e il male. Può
succedere, a un certo punto, che per un’inspiegabile fascinazione, gli estremi
si congiungano, a volte per un attimo, a volte per sempre.
Bello, alto, capelli neri, occhio di un verde che si
dilata al brillare del sole. Fa innamorare le donne.
È distinto, educato, cresciuto all’interno della classica
buona famiglia borghese. Figlio di un giudice. Vissuto in una tranquilla
periferia immersa nel verde ma a poche ore da città come Milano, Zurigo,
Londra. Ha viaggiato parecchio, sin da giovane. Parla correntemente quattro
lingue. È inoltre appassionato di bungee jumping ed è pure un discreto
raccontatore di barzellette.
Ma sì, quello classico. No, non quello con il completo
gessato bianco così cinematografico e folcloristico. Ma no, nemmeno quello di
nuova generazione, laureato in economia o in chimica. Quello semplice, intendo.
Leggermente grassoccio, non tanto alto, catene d’oro al collo e ai polsi. Ha
frequentato pochissimo le scuole, non è che servissero a qualcosa: non t’insegnano
di certo a vivere e, se sei veloce di pensiero quello è l’importante. No, non è
bello, lui.
È difficile dire che cosa abbia portato un perdente
cresciuto in periferia tra spacciatori e taglieggiatori da due soldi, fino a
Cortina.
Innanzitutto, il mafioso odia le montagne, la neve e il
freddo. È evidente poi, la sua totale estraneità all’ambiente, vestito com’è
da perfetto vacanziere sulle nevi da
catalogo.
Il giudice, a Cortina, invece si sente più a suo agio.
Bello di suo, gli basta un vecchio pullover leggermente slabbrato grigio scuro
che gli cada sulle spalle sportive, e semplici jeans di marca.
Fuori, freddo e buio. La neve cade a fiocchi grandi,
lenti, silenziosi; danzano e splendono alla luce dei curvi lampioni in ferro
battuto. All’interno, nella grande villa, mille candele e odore di pino. Si
beve vino speziato, in piedi.
A queste feste alcuni arrivano come amico degli amici
degli amici.
Così è per il mafioso, così è per il giudice.
Un ballo, uno scherzo con le signore, una parola con i nobili
e gli industriali e poi, immancabilmente,
i due si fiutano. Si avvicinano, cominciano a parlare. Il giudice è curioso,
pone domande. Dove abiti? Sei sposato? Quanti figli hai?
Ben presto viene a sapere della barca a Cagliari, dell’esatto ammontare in soldoni dei gioielli
della moglie di lui, della sua Ferrari e
delle Smart regalate ai nipotini
dodicenni. Dei suoi frequenti viaggi in Russia.
Il magistrato parla e nel mentre pensa che è di famiglia
benestante, lui. Una grande villa in periferia. Una discreta bella macchina in
garage. Percepisce un buon stipendio da giudice. La sua famiglia possiede dei beni.
In fondo, tutto gli è stato quasi regalato dalla vita. Non ha mai dovuto fare
grandi sforzi per ottenere le cose. Aveva seguito la carriera del padre senza
farsi troppe domande. Viveva la sua vita da giudice in modo, come dire… da
giudice! Perfettamente equilibrato.
Il mafioso, è diverso: lui rischia tutti i giorni. In un
certo modo è un combattente, anzi lo è sicuramente. Il giudice sa che certe
aree mafiose sono come dei fortini, delle zone di guerra.
Ogni giorno, un nuovo giorno, diverso da tutti gli altri
e non devi sapevi come andrà a finire.
Lì a Cortina erano ambedue in un campo neutro. Diversi,
ma in fondo, di stesso livello agli occhi da gatte delle contesse. Uno bello e
educato, l’altro so funny, un po’
burino, come dicevano le ospiti romane.
‒ Così tu sei Svizzero eh? Mi sei molto simpatico. Perché
non vieni a trovarmi quest’estate al mare? Ci facciamo un giro con la barca.
Io, tu e tua moglie. Ti piace il pesce?
Così cominciò questo strano rapporto.
Lentamente s’instaurò una sorta di stima, di ammirazione
reciproca per poi passare agli scambi di favori, in modo molto naturale. In un
primo tempo, il mafioso chiedeva
ragguagli su una certa banca, sulle persone che si aggiravano intorno alla piazza d’affari della
ricca città in cui abitava il giudice, per poi insinuarsi, tra un week-end
divertente e l’altro, nei gangli della giustizia elvetica chiedendo e ottenendo
permessi di soggiorno per lui e per altri, suoi
carissimi amici.
Inutile dire che questi favori erano ricambiati dal
mafioso con molta generosità e, c’era poco da dire, Francesca, la moglie del
giudice, si adeguò molto facilmente ai ristoranti esclusivi di Milano, Roma e
Parigi. Qualche volta il mafioso l’accompagnava personalmente a fare piccoli
acquisti nelle più rinomate gioiellerie delle varie città. Francesca si beava
di quella vita vorticosa fatta di vacanze e conoscenze nel mondo dello
spettacolo. Quel genere di vita le era congeniale e l’attesa per un fine
settimana a Portofino o Miami la faceva trepidare come un bambina.
‒ Cosa ne pensi? Mi metto questo per la festa a Nizza?
E gli mostrava il vestitino verde lucente appoggiato al
suo flessuoso corpo mezzo nudo leggermente reclinato indietro. Aveva le scarpe
in mano e un sorriso radioso.
Il giudice amava sua moglie e, non avendo avuto figli,
gli sembrava che queste gioie compensassero giustamente la vita un po’ piatta
che conducevano.
I favori al
mafioso, Renato si chiamava, aumentavano di giorno in giorno, e per entità e
per rischio. Dapprima al giudice pareva di condurre una doppia esistenza e si
sentiva sporco quando condannava dall’alto della sua Corte, ma in breve riuscì a controllare queste manifestazioni
interiori. L’appagamento che gli dava leggere negli occhi altrui l’aumentata stima
in relazione all’aumento dei suoi beni, lo gratificava enormemente.
C’era da dire che il giudice e Francesca formano una
bellissima coppia: eleganti, raffinati e sorridenti. La vita era diventata un
gioco; un gioco facile e Renato era compagnia divertentissima. In fondo,
pensava il giudice, dispensare favori a un amico, avendone le possibilità, era
un dovere, e poi non tutto era bianco oppure
nero. Così si era convinto: la vita è una sola, bisogna prendere a piene mani
ciò che questa ti offre. Così ragionava, mentre era a Cannes, vicino al mare in
un delizioso baretto arredato con canne di bambù, sorseggiando un caffè. Nell’aria un bel tepore da prime
giornate di aprile.
Passarono diversi anni e niente turbava questa profonda
amicizia. Renato, nel suo essere fuori dalla legalità, era molto più sincero e
onesto di tanti suoi colleghi togati.
Una mattina avvenne quello che doveva avvenire: una sorta
di appuntamento annunciato. Fuori era ancora buio e il freddo invernale gelava
le ossa.
Il giudice si svegliò alle sette e trenta e ancora pieno
di sonno uscì dal letto. Si sentiva strano. Come fosse divampata un’improvvisa
rivoluzione interna. Una faida, silenziosamente generata all’interno del suo corpo,
un vortice che saliva. S’illudeva, lui, che questi elementi così diversi si
potessero amalgamare! Pensava si fossero ormai cementificati dopo tanto tempo,
dando così a lui, esterno e ignaro, la sensazione di poter vivere e stare al
mondo come meglio credeva e voleva. Cercò di dirigersi verso il bagno ma una
morsa allo stomaco lo costrinse a tornare e sedersi sul letto. Gli salì una
nausea fortissima. Riuscì finalmente a
correre in bagno, alzò la tavoletta del water e vomitò. Vomitò la cena, vomitò
il vino, gli sembrava di vomitare l’anima. Poi cominciò a vomitare suo nonno
avvocato e sua nonna mentre lo portavano al maneggio, vomitò il cavallo, suo
padre che si congratulava con lui dopo la laurea, vomitò sua madre che lo
baciava prima di andare a scuola, vomitò gli amici, i colleghi avvocati, vomitò
anche tutti i vestiti di Francesca e le sue scarpe, tantissime, i sui gioielli,
il Porche e la Mercedes posteggiate in garage, vomitò pure il garage, il
giardino e la piscina…
Sì accasciò infine a fianco del water, tenendosi la
testa, senza più energie, sfinito. Tutto era uscito dal suo corpo e sparito nel
water. Non gli era rimasto più niente. Si mise a piangere, piano, a singhiozzi
stretti, come un bambino.
La giornata era splendida ma le persone che incrociava
avevano oramai sguardi diversi. Gli
sembrava non vedessero più il giudice dall’aspetto prestante, con la sua
cartella di pelle e i vestiti firmati, il taglio perfetto dei capelli neri
lucidi. Leggeva ora negli occhi della gente chiaramente il disprezzo; eppure
erano gli stessi colleghi di ieri! Avvocati, segretarie, giudici, quel giorno
lo evitavano con disgusto.
A mezzogiorno staccò dal lavoro e uscì.
Sudava, lui che non sudava mai e si portava in giro quel
corpo svuotato, smembrato. Eppure, tutto pieno di quei raggiri legali si era pur
sentito leggero… o si era illuso di esserlo. Si era perpetuata in lui una sorta
d’inganno. LUI era stato raggirato!
Lui: un giudice! Colluso con la mafia.
Non riusciva a scacciare il pensiero che ronzava insistentemente, quasi fosse
già un titolo di giornale. Pensare a Francesca gli dava già la nausea, ora, e
accresceva in lui un tale stato di confusione
in cui si trovava, sentendolo sempre più pesante nel vuoto di cui si era
svuotato.
Si rintanò come un braccato in un piccolo caffè.
‒ Un bicchiere di acqua gasata, per favore ‒ chiese.
Bevve avidamente. Mentre la cameriera stava dicendo: ‒
Fanno tre franchi e cinquanta.
Il giudice prese il cellulare e compose un numero. Era
quello di Franco, il suo amico commissario di polizia:
‒ Ciao, sono Giovanni. Posso passare da te nel
pomeriggio, avrei delle informazioni da darti.
Spense il cellulare. Si alzò e sorrise alla cameriera,
che gli rispose nel modo in cui lo guardavano le donne, con studiata timidezza.
‒ Tuo marito è un’idiota! – Renato stava fumando e
bevendo del vino bianco. La barca rollava dolcemente, i motori spenti.
‒ Non so cosa gli ha preso! Giuro… non capisco. Per
fortuna hai organizzato questa fuga. Non voglio finire in galera, io!
Francesca si alzò dal letto e mollemente si diresse verso
la specchiera. Si sedette sulla seggiola e si sistemò i biondi capelli
arruffati.
‒ Un idiota! Un vero idiota! – disse con disprezzo.
Ritornò verso il letto con la spazzola ancora in mano. Si sedette accanto a
Renato, ancora sdraiato, e lo baciò sul petto nudo.
‒ Ma ti rendi conto che era al disopra di ogni sospetto?
Mai nessuno si sarebbe accorto dei suoi traffici. Era un gioco perfetto.
Perfetto! Ha rovinato tutto e ieri la notizia era su tutti i giornali! Giudice
stupido, dovevano scrivere. Ma che gli avrà preso?
‒ L’ha colto un raptus di onestà. Una brutta cosa. Quando
capita finisce sempre male ‒ rise Renato. E con le sue mani grassocce prese
Francesca per le braccia, l’attirò a sé e la baciò aspirandone l’odore della
lacca nei capelli.
‒ Portami quella lettera. – disse poi a lei che ubbidì
docilmente.
La aprì: arrivava dalle autorità di uno stato africano cui
aveva venduto delle armi. Gli comunicavano che, riconoscenti del servizio
prestato, lo avevano nominato giudice onorario
di un circondario del loro paese.
Rise di nuovo, tanto che sembrava quasi un matto.
http://www.oniricaedizioni.it/booksheet.aspx?id=1
Aspetto il seguito, mi raccomando. Me lo ricordo bene questo racconto, e come non potrei. Ci sono anch'io tra gli autori di quel libro. Mi ricordo che il tuo è stato un parto sofferto, ma cribbio, anche a distanza di tempo devo dire che ti è venuto proprio bene.
RispondiEliminaEh sì, ha ragione Franco: ti è venuto proprio bene, uno dei tuoi migliori, se non IL MIGLIORE. Lo conoscevo perché posseggo una copia della raccolta di racconti, gentile omaggio autografato;-), ma rileggerlo è stato un piacere.
RispondiEliminaScritto abilmente, all'inizio sorprende per l'assenza di falsi moralismi perché la realtà si avvicina più alla prima parte che alla seconda... Gli scrupoli di coscienza credo appartengano a pochi, specialmente a quei livelli, però mi piace che il giudice si sia ravveduto, anche se a poco è servito perché alla fine pare "cornuto e mazziato", come si dice, a giudicare dal finale ironico.
Brava Patty! E se ci sei, batti un colpo! ;-)
L'ho letto ieri sera e mi ha colpito molto la parte in cui il giudice prende coscienza, fa i conti con i rimorsi e vomita...vomita...vomita...
RispondiEliminaForte quella parte e il resto scritto con un piglio moderno.
Martha
Coinvolgente. Una lettura che invoglia e obbliga chi legge a cercare di indovinare la fine degli avvenimenti. E quando questa arriva rimani di stucco per la sorpresa. Ben scritto e abbastanza veritiero, almeno per quanto riguarda i personaggi. Insomma, un buon racconto e una scrittura che soddisfa.
RispondiEliminaUn saluto, Sergio.
grazie mille a tutti
RispondiEliminaPatti
RispondiEliminaCiao Patty, ho letto con interesse il tuo racconto, molto originale per l'ambientazione che hai scelto. Anche a me ha colpito molto la presa di coscienza del giudice e la sua metaforica reazione che trovo molto incisiva.
RispondiEliminaCome uno schiaffo il finale, così amaro nella sua ironia.
Serenella
Abituati alle lunghe, sofferte conversioni dei romanzi russi, o a quelle manzoniane illuminate dalla provvidenza, ci sorprende ora questa conversione che colpisce come un raptus, un morbo fulminante, accompagnata da sintomi parainfluenzali, oltre che dall’emersione delle corna.
RispondiEliminaSpunto interessante appare la contrapposizione iniziale dei due protagonisti, secondo lo schema greco della cosiddetta “Kalokagathia”, per cui, cioè, il bello e il buono sono congiunti nella stessa persona, mentre il cattivo è, ovviamente, anche bruttino e volgare. Ad un tratto, però, compaiono zone d’ombra, attraverso le quali il buono, trovandosi forse per la prima volta di fronte alla tentazione concreta del male, transita verso l’altra sponda e precipita nella sua caduta.
Riuscito, secondo me, è il personaggio del mafioso, un po’ piatto, invece, il giudice, le cui dinamiche mi sembrano forse troppo descrittive e svuotate d’introspezione.
Ottima la scrittura.
Ciao, Francesco
(Francesco... L'ho portato io in questo blog;-)...) :-D
RispondiEliminaAhahah! Stefania! Mi è nata una risata limpida e fresca come il tuo commento.
RispondiEliminaSerenella
Come scriveva Dostoevskij in "Memorie dal sottosuolo": essere troppo "coscienti" è una malattia; per la vita quotidiana dell'uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, la coscienza con cui vivono tutti i cosiddetti uomini immediati e d'azione.
RispondiEliminaEd ecco la vera opposizione presente nel racconto: la coscienza ipertrofica del giudice in antitesi con quella appassita del mafioso. L'incarnazione della legge si scontra con l'emblema dell'illegalità: dapprima i due elementi si fondono, convivono, poi, inevitabilmente, avviene il distacco. A questo punto sono entrambi mutati, i ruoli ne escono invertiti: il giudice diventa criminale, e il mafioso giudice (seppur di uno stato Africano dominato dal disordine militare).
Un racconto, il tuo, che ha un sapore classico e come tale valica i confini del plausibile e del quotidiano per incontrare l'allegoria, adattandosi ad ogni tempo, luogo e persona, e interpretando bene e male non come entità astratte ma come immanenti capacità dell'uomo.
O almeno, questa è l'interpretazione che mi sono sentito di dare. Poi si sa, ognuno può leggere decine di messaggi diversi. Inconfutabile, però, è la tua precisione nel delineare personaggi e situazioni. Un'altra ottima penna scovata dal nostro caro amico Franco! Complimenti e a presto!
grazie mille. Passerò a commentarvi (velocemente vi ho già letto)
RispondiEliminaCiao Patti,
RispondiEliminafelice di ritrovarti anche qui.
Come ben sai, la tua penna narrativa e poetica la conosco e l'apprezzo da tempo.
Questo racconto non lo conoscevo e mi è piaciuto come hai trattato l'antitesi legalità/illegalità. Come hai tratteggiato, con dovizia di particolari, l'aspetto del giudice e quello del "carnefice", il capovolgimento dei ruoli, la bramosia del successo e l'avidità dell'avere.
Brava come sempre, insomma.
Una sola curiosità: perché chiamare il giudice Giovanni e la moglie Francesca?
A presto
Daniela
Ciao Patty, burlona… (…) […]
RispondiEliminaA me invece fa molto piacere averti reincrociato! Eheh
Allora
Mi pare che vi sia solidità sintattica, efficacia nei ritratti iniziali “da subito intimamente pervasi dell’incontro fatale”, in stile pan-artistico, acume in vari tratti introspettivi. Solida e capace, insomma; ciò non toglie che in prosa mi aspetti quel quid in più da te, almeno per quello che dalla mia umile postazione mi pare di aver percepito della tua vasta preparazione letteraria e del tuo notevole talento poetico. Qui difatti alcuni passaggi topici vanno ad assumere più i connotati del resoconto che della rivelazione, alcune locuzioni trovano eccessiva eco nel linguaggio della cronaca, alcuni slang sono ad oggi troppo standardizzati.
Insomma, lungi dall’essere una critica (chi sono io per…), vado a rilevare questi piccoli nei sperando che l’enorme potenziale Patty, pienamente espresso in poesia ed in analisi letteraria, possa spaziare a 360°, per la gioia di noi tutti amanti del bello dell’arte delle fragole con panna etc etc
(anche Janco l'ho portato io;-)...ahahahah :-D)
RispondiEliminaChe cosa dire? La tua prosa mi è sempre piaciuta, mi piace la varietà, il ritmo, lo spirito,l'acume... Ho letto le osservazioni di Janco e devo dire che le capisco perfettamente: si riferiscono a quel velo di opacità che spesso mi disamora in un racconto. Ma, nel caso tuo, non mi sembra che calzino. Io almeno non le condivido.
RispondiEliminaLe due figure sono descritte molto bene e così è per le dinamiche che si possono instaurare tra UN giudice e UN mafioso. Quello che secondo me è un po' tirato là è il momento, invece cruciale, dell'epifania “vomitevole” che porta il giudice alla presa di coscienza, che rimane un mistero, anche per il lettore. Secondo me sarebbe stato interessante esplorare questo momento interiore. StefaniaT
RispondiEliminaUna storia letteraria certamente inusuale e forse drammaticamente attuale.
RispondiEliminaAi miei tempi si studiava e si parlava di una giustizia incorruttibile, imparziale, baluardo del diritto.
Ma i tempi evolvono ed evolvono anche certe situazioni contingenti.
Su tutto però emerge uno Stato fellone, incapace di preservare i suoi cittadini.
Anzi incentivandoli al vizio del gioco, all'oscenità morale, alla violenza.
Il racconto è indicativo: alla fine il trionfo del male e la derisione dell'onestà.
Il testo è ben condotto, serrato, controllato semanticamente, attento ai particolari, moraleggiante.
Che si presta ad una seria meditazione civile e per paradosso alla difesa dei valori positivi della collettività.
Sid