Bianconeve
senza i nani :
istoria
in prosa senza pretese letterarie di un Lazzarillo di provincia.
di
Siddharta
prima
parte
In
un Regno vicino, poi diventato Repubblica, viveva Bianconeve senza i nani. Era
un bambino piccino piccino, dagli occhi grandi e dal cuore tenero. Il suo Papà
Cattivone l'aveva messo nelle mani della Pecoraia, una donna ignorante e
manesca. La Pecoraia probabilmente era l'amante del Papà Cattivone, ma
Bianconeve allora non poteva saperlo.
Perchè
la Pecoraia da bambina accudiva un gregge in montagna, ma un giorno la
mandarono a servizio in casa di Papà Cattivone. Lei aveva meno di diciassette
anni, mentre lui viaggiava sulla trentina o poco più.
E
si sa come vanno a finire queste cose: passa un giorno, passa l'altro e
finirono a letto. Lei dalla pelle di pesca, lui dal portafoglio pieno.
La
sgualdrina subito fiutò l'affare: invece di fare la pastora era più conveniente
fare la padrona. Lui però, scapolone impenitente, a quei tempi non cedette alle
lusinghe matrimoniali: era un medico affermato dal futuro promettente, lei
un'astuta ignorante, cosa che però non poteva immaginare...
E
da qui nacque l'avventura di Bianconeve miserello, un Lazzarillo di provincia
che il destino aveva segnato.
Avvenne
che il Papa' Cattivone fosse nato in un'amena cittadina del sud, oggi
dichiarata Patrimonio dell'umanità. Si trasferì poi con la famiglia nel
capoluogo, ove durante la seconda guerra mondiale sbarcarono le truppe alleate.
Suo
padre, cioè il nonno di Bianconeve, era un colonnello dei Carabinieri, e per
avventura padre e figlio si trovarono entrambi al fronte nella guerra '15-'18.
I loro rapporti dovettero essere conflittuali, perchè Papà Cattivone ne fece
sempre accenni fugaci.
Fatto
sta che negli anni giusti visse una condotta medica in un paese del nord, da
dove più non si mosse. Quivi, in pieno regime dittatoriale (ma a suo dire
rivestì raramente l'orbace), volando di fiore in fiore incappò nella madre del
pischello.
Donna
bellissima, si buccinava, dagli occhi verdi di ghiaccio.
Di
ghiaccio anche il cuore, tanto che quando Bianconeve nacque ella pensò bene di
non riconoscerlo, abbandonandolo.
In
quel torno di tempo, Papà Cattivone si era dato ad una vita di baldoria...
Un
giorno, dopo aver mangiato un'intera anguria da solo in un chiosco locale
(tutti se ne meravigliarono...), fu colto da grave colica, fin quasi da
morirne. Siccome era un gran devoto, secondo gli usi della sua terra, fece voto
solenne alla Madonna di Pompei che se fosse guarito avrebbe riconosciuto
Bianconeve come suo figlio legittimo.
Detto
fatto, fu accontentato e lui mantenne fede al giuramento. La storia del
Lazzarillo senza i nani praticamente iniziò qui.
Papà
Cattivone, già imbranato con la sua Pecoraia lolita, pensò bene allora di
affidare il neonato ad una sua sorella (che d'ora in avanti verrà chiamata Fata
Turchina, perchè tale si dimostrò) residente in città, già sposata con due
figli. Così da guadagnare tempo e decidere sul da farsi.
Papà
Cattivone, da sospettoso quale era, si affidò però anche ad un investigatore
privato per saperne di più sulla madre snaturata da lui scopata nove mesi
prima.
Dalle
carte venne fuori che la < signorina > era conosciutissima in riviera
lacustre, e forse anche come una delle spasimanti del Rapagnetta nazionale.
Fatto sta che da allora ogni loro rapporto si interruppe: ognuno per la sua
strada. Bianconeve crebbe i suoi primi anni in casa della Fata Turchina, con
suo marito (zio Ciccio) ed i due cuginetti più grandi di lui.
Furono
gli anni più belli.
Bianconeve
non ricordò mai d'avere avuto uno scapaccione o una punizione solenne. In casa
zio Ciccio ogni tanto lo chiamava < il ferroviere >, non si sa perchè, ma
senza cattiveria.
Poi
giunse la guerra. Zio Ciccio partì per il fronte francese, la bocca a
orciolo... La Fata Turchina rimase sola coi figlioletti e Bianconeve.
Tempi
duri, da fame, malgrado l'aiuto di mantenimento di Papà Cattivone. Non c'era
cibo, il pane ed altro tesserati, bisognava arrangiarsi. La Fata Turchina ogni
tanto poneva delle briciole di pane in fila dal poggiolo alla cucina. I colombi
entravano beccando ed i ragazzini nascosti < pam! > chiudevano la porta-
finestra facendoli prigionieri. Svolazzavano per tutta la cucina, ma una volta
catturati la zia li annegava sotto il rubinetto del secchiaio, tra l'orrore dei
bambini.
Ma
zitti, tutti zitti, che il vicinato non sapesse...
Era
cosa proibita dalle Autorità, ma Bianconeve non ne sapeva il perchè!
Intanto
la guerra era quasi al suo apogeo. Le bombe alleate piovevano sulla città con
l'obiettivo di far saltare le fabbriche convertite in produzione di guerra ed i
nodi ferroviari.
Al
piccino Bianconeve piacevano tanto gli spezzoni incendiari ed i bengala per le
loro luci notturne che illuminavano gli orizzonti tutt'intorno.
Con
la gente in strada che naso all'insù sottovoce commiserava quei poveretti presi
di mira dai bombardieri.
Gli
piacevano molto anche le formazioni dei quadrimotori che, in successione,
solcavano il cielo dirette al nord per sganciare i loro carichi di morte.
I
curiosi, tra il contento ed il preoccupato, mormoravano che andavano a rendere
la pariglia a certi cattivi, che però Lazzarillo non aveva mai visto.
Lo
stupivano anche le scritte sui muri < rifugio antiaereo > che spiccavano
in grande con la freccia direzionata verso le bocche di lupo alla base del
palazzo ove abitava.
Un
terrore invincibile lo prendeva quando le sirene d'allarme ululavano sulla
città. Allora bisognava uscire di corsa sulle scale, precipitandosi tra una
folla in fuga, e rintanarsi negli scantinati.
Quando
le bombe scoppiavano fragorose facendo tremare le fondamenta, gli prendeva
un'ansia profonda per il timore di morire sotto le macerie.
Il
rifugio gli sembrava una trappola per topi.
Appena
scesi nel sotterraneo, c'erano degli animosi che cercavano di farsi e fare
coraggio scherzando con la voce rotta dalla paura. Ma ai primi scoppi tutti
zittivano d'improvviso e movevano silenti le labbra, chi in preghiera, chi
coprendo con le braccia i piccini, chi stringendosi l'uno con l'altro.
Mentre
la guerra imperversava, i monelli del quartiere si davano un gran daffare per
divertirsi e passare il tempo.
Il
gioco più praticato era quello del carrettino di legno a tre ruote con
cuscinetti a sfere ( anzi un semplice assone con tanto di manubrio per
sterzare: una tecnologia avanzatissima...), col quale si facevano delle sfide
memorabili per superarsi in curve a gomito.
Essendo
eternamente il più piccino, Bianconeve non ne possedeva uno, ma lui tifando per
gli altri era come se l'avesse avuto.
Le
gare si facevano lungo i viali pubblici e le strade periferiche della città, ma
i vigili non volevano per il gran fracasso e il pericolo per i passanti. E
allora appena comparivano, tutti a scappare a gambe levate. I più ardimentosi
si cimentavano anche col carburo. Lo mettevano in scatolette chiuse aggiungendo
acqua e poi le coprivano con monticelli di terra.
Poi
i monelli aspettavano al riparo che saltasse per dilatazione interna con un bum
rumoroso a mò di bombetta, schizzando la terra tutt'intorno.
Il
Meschinello non ci provò mai perchè non aveva i soldi per il carburo ( chi oggi
l'ha più visto? ) che si acquistava di nascosto dal rivenditore di biciclette.
Ma
il divertimento più pericoloso consisteva nel mettere ciottoli sui binari del
tram, per vedere come li stritolava. Se erano troppo grossi, il tranviere si
fermava per non deragliare, scendeva e li toglieva, imprecando contro i
monellacci ben nascosti che spiavano l'accaduto.
Anche
Bianconeve ci provava, ma con i sassolini che riusciva a trovare: e purtroppo
il tram non si fermava mai e nemmeno deragliava...
Un
altro gioco bellissimo era quello con le scatole vuote di legno della
marmellata Quarenghi.
Tirandole
avanti e indietro con doppio filo di spago, i compagni di ringhiera si
scambiavano da un balcone all'altro , sopra l'ampio cortile, giornalini
(meravigliosi quelli dell'Uomo mascherato... ), biglie ed altro.
Ma
Lazzarillo non possedeva niente da barattare e se ne stava a guardare i più
grandi.
Lui
aveva in tasca solo un paio di biglie di terracotta ( mica quelle di vetro
screziate... ), rubate ai compagni disattenti durante le sfide: ma non poteva
farle vedere per non essere scoperto. Tutti giochi di ripiego, come si vede, in
un tempo in cui la gente tirava la cinghia a causa della guerra.
Avvenne
( misteriosamente per Bianconeve ) che zio Ciccio dopo meno di un anno tornasse
dal fronte, rioccupando il posto di Dirigente Capo in Prefettura. Ma qui
avvenne un fattaccio.
Un
giorno sul divanetto del suo ufficio, si mise a scopare una dipendente. Scoperto
sul più bello da un usciere, il fatto fece scalpore nell'ambiente.
Una
mattina Bianconeve vide uscire di corsa tutta aggrondata zia Fata Turchina, che
sotto i portici prese a ombrellate la malcapitata chiamandola puttana
pubblicamente.
Rientrando
poi tutta soddisfatta a casa.
Zio
Ciccio per punizione venne trasferito in una cittadina romagnola, ove ancor
oggi il sommo Dante dorme sonni tranquilli.
Il
Meschinello però non seppe mai quando Ciccio, scontata la pena, fosse stato
reintegrato.
Intanto
la città era diventata un inferno. Bombe da tutte le parti.
La
Fata Turchina allora si trasferì come sfollata prima in un paese confinante, e
poi per sicurezza in mezzo ai monti di una valle a nord, proprio ad un tiro di
schioppo dalla condotta medica del fratello Papà Cattivone.
Si
trattava di un paesino tipo Rio Bo ( che d'ora in avanti chiameremo Poggio
Ridente ), non per caso proprio quello ov'era nata la terribile Pecoraia.
Il
piccino e i parenti vi restarono rifugiati fino alla fine della guerra.
In
quel torno di anni gli si aprì un nuovo mondo suggestivo. Un mondo di scoperte
e di giochi. E là v'erano anche altri sfollati, con bambini più o meno della
stessa sua età.
Poggio
Ridente era un paesino di cinquanta abitanti, salito a settanta con gli
sfollati.
Adagiato
su un pianoro, a sud ammirava il panorama sottostante, a nord s'inerpicava
subito sui monti. Era diviso in due contrade, quella di sotto e quella di
sopra, poche case rustiche accorpate ciascuna attorno ad una fontana pubblica.
L'acqua
freschissima (chissà se potabile secondo i moderni criteri sanitari...) veniva
trasportata a mano nel secchiaio di casa, ov'era bevuta con la casseruola di
zinco.
D'estate
le mosche cadevano nei secchi pieni e venivano buttate via a colpi di mestolo,
con gesto altamente professionale... Le due vasche erano a doppia partitura: in
quella inferiore si lavavano i panni, in quella superiore si risciacquavano e
il mattino e la sera vi si abbeveravano le mucche e gli equini.
Nelle
lunghe sere d'inverno gli abitanti per risparmiare si riunivano nelle stalle al
tepore animale, solo la luce di una lanterna. Dal lato del fieno le donne e i
bambini, vicino alle bestie gli uomini; tutti seduti su sgabelli a tre gambe,
fatti a mano dai contadini. Erano i momenti più belli per i più piccini, gli
occhi sgranati ad ascoltare discorsi sentimentali allusivi che non capivano, ma
soprattutto le storie di fantasmi e di mostri.
Il
racconto più terribile e terrorizzante era quello che narrava di diavoli a
custodia di un tesoro nascosto dietro una edicola votiva diroccata a metà
strada della valle. A mezzanotte, quando le donne tornavano dal lanificio, i
satanassi uscivano di colpo spaventandole a morte. Le donne e le ragazze grandi
ridevano divertite al racconto, ed accennavano ai fantasmi chiamandoli per nome
(Giacomo, Piero, Giovanni, ecc. ) come fossero degli umani che le aspettassero
al varco...
Bianconeve
in quelle sere, al momento di andare a letto, vedeva assassini dappertutto
nelle ombre sinistre della notte, e bisognava spingerlo a letto con le buone e
le cattive.
Un
mattino Bianconeve se ne andava bighellonando poco fuori del paesello. D'un
tratto sentì un rombo diffuso di motori aerei. Ed ecco d'improvviso solcare il
cielo un paio di caccia che s'inseguivano l'un con l'altro volteggiando in
capriole.
Un
secco crepitio di mitragliatrici, senza che lo spicchio di cielo azzurro
incorniciato dalle montagne lasciasse intravvedere bene nella sua pienezza il
duello aereo. Pochi secondi, e gli piovve addosso una gragnuola di bossoli bei
grandi dal lucido colore ottone. Lui avrebbe voluto raccogliere i preziosi
cimeli, ma si ricordò degli avvertimenti degli adulti: per nessun motivo
prendere in mano oggetti di guerra; potevano esserci munizioni inesplose o
oggetti esplosivi in grado di mutilare ( penne, bamboline, ecc. ). Rinunciò a
malincuorre a quei trofei...
Certe
sere poi vedeva in casa un via vai sospettoso di adulti. Tutti intorno ad una
Radiomarelli a valvole sintonizzata sulle onde corte. Bum... bum...bum...,
faceva tra fruscii ed alti e bassi: qui radio Londra, vi parla Ruggero
Orlando...
Appena
i monelli facevano capannello incuriositi, i grandi li cacciavano dalla stanza:
via, via, andate via! Dai loro discorsi e mezze parole, si capiva del divieto
di ascoltare tale emittente, a rischio di denunzia dei vicini...
Bianconeve
ricorda solo i bollettini ufficiali delle vittoriose armate italo-tedesche che
abbattevano aerei e affondavano navi del nemico a iosa. Tra i sorrisetti degli
adulti sintonizzati sull'EIAR.
Un
altro giorno si era inoltrato con altri grandicelli lungo una roggia, a caccia
di farfalle e sassetti colorati. D'un tratto sentì un gran vociare: tutti gli
amichetti intorno spariti e dalle finestre le fantesche a gridargli di
rientrare subito. Pochi secondi, e con stupore vide ai suoi piedi un grandinare
di bossoli piovuti dal cielo.
(
SEGUE )
Ti si conosce come grande estimatore dell’endecasillabo classico, gran commentatore e estenuo difensore della letteratura classica, fine pensatore e artefice di arguti e sibillini elzeviri, pertanto quando ho letto: storia di un lazzarillo “senza pretese letterarie”, pensavo fosse per celia, per eccesso di modestia, ed invece mi sono dovuto ricredere.
RispondiEliminaAbbandonato il tono aulico e il linguaggio erudito, senza fronzoli e con uno stile favolistico ci proponi la triste storia, (la prima di tre parti) di Bianconeve, un bambino che ancora non siamo autorizzati ad identificare con l’autore.
Ho scritto biografia soltanto per definire il genere, ma potrebbe essere un bel lavoro di fantasia, sarai tu, se lo vorrai , a svelare il mistero. In conclusione, avendo già detto sul piano stilistico, non mi resta che attendere le altre puntate per vedere come va a finire e poi tireremo le somme.
Trovo splendidi questi racconti di vita vera (così lo vedo questo tuo), dove la fantasia nulla può al confronto.
RispondiEliminaQuesto, poi, è così carico di pathos che pare di essere noi quel piccolo Bianconeve con le sue scoperte del mondo e i suoi stupori infantili.
La cornice della guerra è una cornice incidente sul quadro, troppo tragica, anche per gli occhi ingenui di un bambino.
Molto bello questo primo brano, aspetto con interesse il seguito.
accattivante scrittura, indubbiamente. procedi dal reale al mito, alla favola e questo è interessante esattamente l'operazione contraria la fa Emanuele Trevi in un racconto di grande maestria che leggevo ieri, ne consiglio la lettura, dove si procede dal mito (paperopoli) al reale, qui potete trovarlo http://www.nazioneindiana.com/2012/12/21/psicotici-e-precari-a-paperopoli/ , e complimenti anche al Syd che con la penna ci sa fare (complimenti per il "quivi")
RispondiEliminaScritto come fosse qualcosa di fiabesco, che non è.
RispondiEliminaMi sono trovata impelagata nella lettura per il piacere, forse per il modo di scrivere una autobiografia.
Questi ricordi dovrebbero essere letti dai giovani, perché non possono capire come si sia ribaltato il mondo in pochi anni.
Piacevole veramente, ora aspetto la seconda parte
Ho scritto anch'io qualcosa del genere, ma solo per ricordare gli anni a cavallo della guerra, e, molte cose le abbiamo condivise; ad esempio le palline di terracotta, noi le chiamavamo di "fragna" o la scatola che faceva da teleferica, i miei avevano il Magnadyne per ascoltare Radio Londra , i rifugi della mia città, tutti, dico tutti furono trappole per topi.
Bravo
A tutti gli Amici lettori del blog.
RispondiEliminaSì, è autobiografica, il dramma della mia infanzia e giovinezza.
Per questo talora dico che sono nato già grande.
Potevo diventare un delinquente: ma il destino ha voluto altrimenti.
Fraternamente.
Siddharta
Mi è piaciuto quel tuo "Potevo diventare un delinquente". Sono le stesse parole che mio fratello usava per descrivere quei tempi. E invece siamo qui a raccontarcela.
RispondiEliminaBuona serata
E' spiazzante la diversità di stile tra il tuo modo di far poesia e il tuo modo di raccontare. Obsoleto il primo, intrigante e moderno il secondo.
RispondiEliminaPiaciuta soprattutto la trasposizione della favola alla vita reale, o viceversa, trovata in assenza della quale il racconto, è probabile, non avrebbe avuto la stessa valenza attrattiva.
Dammi tempo e leggerò anche la seconda parte.
Ho avuto il piacere di conoscere già la storia del "Lazzarillo di Campagna" ma.........
RispondiEliminaChiedo troppo almeno sapere chi è il lazzarillo che credo sia uno dei ragazzi della foto???
Ropite Ruzol
La foto è di repertorio, postata dal nostro Webmaster per l'occasione.
EliminaQuindi io non compaio: ma non è una gran perdita...
Sid
Questo lo dici tu che non è una grande perdita!!!!! Io ci avevo messo un pensierino.
RispondiEliminaPer farne che poi??? Forse per sapere che sei terreno, tangibile e non astratto!!!!!
Ropite...amichevolmente!