A quarant’anni suonati, senza esperienza
alcuna nel settore metalmeccanico e in piena congiuntura economica, Giovanni,
per botta di culo ricevuta e forse anche grazie alla raccomandazione del
parroco, fu assunto a tempo indeterminato e con la qualifica di manovale
generico nella grande azienda milanese.
Il Perotti, soddisfatto come il giorno
del congedo militare e felice quasi quanto per l’ultimo scudetto del Toro, fu
assegnato al reparto di manutenzione della forgia, con mansioni che andavano
dalla pulizia al magazzinaggio e alle dirette dipendenze del capo reparto:
una testa di cazzo insopportabile, soprattutto di mattina quando ancora era
sobrio.
Giovanni, uomo della Bassa di poche
parole e la schiena dritta, non si perse d’animo e per lui fu uno scherzo da
ragazzi eseguire tutti gli ordini impartiti senza protestare, e sempre con il
sorriso sulle labbra. Inoltre era puntuale, non domandava permessi e aderiva
solo agli scioperi generali, cioè a quelli indetti dai tre maggiori sindacati
di categoria.
Dopo un paio d’anni soltanto, passati
senza un giorno di malattia, la direzione nella persona dell’Ingegnere capo, di
punto in bianco e cioè in linea con la politica aziendale, gli comunicò che
l’indomani avrebbe iniziato a lavorare sulla fresatrice. Una macchina utensile
che sino a quel momento aveva solo sentito nominare, che certamente aveva già
visto, ma della quale non sapeva assolutamente nulla.
Vite madre a più principi e senza fine,
brida, girabrida e staffa; mandrino, goniometro, micrometro, punta elicoidale
e… Alidada!?
Alidada? Che sarà mai,
si domandava Giovanni, frastornato da quelle parole incomprensibili, mentre le
sue mani si muovevano incessanti, intorno alla sua macchina utensile che
sfornava cerchi d’acciaio come fossero noccioline.
In realtà Giovanni questi cerchi del
diametro di trenta centimetri e dalla sezione rettangolare, li doveva solo sbavare. Un’operazione semplice e di
scarso impegno mentale, tanto che una volta preso il ritmo egli si permetteva
perfino il lusso di seguire il corso dei propri pensieri ‒ cosa che di solito
aiuta a far passare il tempo, combatte la noia, e ritarda l’inevitabile
rincoglionimento.
Tutte le mattine alle otto in punto,
sereno come mai in vita sua, avviava la fresatrice e gioiva di quel rumore
d’ingranaggi, emozionandosi sempre come la prima volta. La sera poi, quando
smetteva al suono della sirena, i cestoni erano pieni dei suoi pezzi e il
calcolo sul cottimo gli permetteva anche di raggranellare qualche liretta in
più rispetto a prima.
Dopo qualche mese di quella pacchia,
Giovanni, che tra un pezzo e l’altro non si permetteva il lusso di alzare la
testa e il suo sguardo non andava mai oltre l’armadietto degli attrezzi, si
trovò alle spalle un tristo individuo che, con il cronometro in mano, gli
ricontrollò i tempi di lavorazione al secondo.
Giovanni avvertì quella presenza
silenziosa come una minaccia e allo stesso tempo un monito a dare il meglio di
sé, pertanto lavorò come un forsennato per quattro ore filate, dimenticandosi
pure di andare al gabinetto.
«Datti 'na calmata.» suggerì un collega
durante la pausa pranzo.
«Perché?» domandò lui ingenuamente.
Il collega cercò di spiegargli i
delicati e complessi meccanismi legati al sistema del cottimo, ma inutilmente,
quando Giovanni si sentiva osservato, aumentava automaticamente il ritmo, con
il risultato di far lievitare la media di produzione oraria.
Dopo tre giorni di duro lavoro, alla
costante presenza dello spaventapasseri in camice bianco, a Giovanni infine
furono assegnati i nuovi tempi, con i quali era costretto a lavorare sempre al
massimo per ottenere il minimo della produzione.
Non temeva la fatica, aveva la salute e
la volontà per farcela, ma il timore che la macchina s’inceppasse, o che
perdesse del tempo per altri imprevisti, con la conseguenza di vedersi
decurtare il già misero stipendio, gli fece perdere la serenità che lo aveva
sorretto fino ad allora e s’incupì accanendosi nel lavoro.
Col tempo tuttavia, dimostrando
carattere e intelligenza, si abituò anche ai nuovi ritmi. Imparò nuovi trucchi
del mestiere e acquisì la malizia necessaria per risparmiare qua e là attimi
preziosi che sommandosi, si trasformavano al termine della giornata in minuti
preziosi per rifiatare. In questo modo e senza rendersene conto, pezzo dopo
pezzo, giorno dopo giorno, passarono incredibilmente dieci anni.
Accadde poi un giorno che, per mancanza
di scorte, Giovanni fu costretto a interrompere la produzione. L’ufficio
tecnico decise pertanto di approfittare di quella pausa forzata per approntare
delle modifiche alla vecchia macchina utensile.
La tempestività dell’intervento fece
sorgere molti dubbi sulla vera natura di quella sosta ma Giovanni aveva altri
pensieri, e si aggirò disperato per tutto il tempo intorno al capezzale della
sua macchina, seguendo con ansia e apprensione tutte le operazioni della
squadra degli attrezzisti.
Finalmente la fresatrice tornò a nuova
vita e superato il collaudo, Giovanni si trovò tra le mani un mostro capace di
produrre addirittura due cerchi in una sola volta e quasi nello stesso tempo.
Adesso Giovanni raccattava dal cestone due pezzi grezzi per volta, li
posizionava sopra il nuovo porta-pezzi e dava inizio alla passata, che a
confronto con la precedente era solo di qualche secondo più lenta, un tempo
tuttavia sufficiente a mettere in crisi il suo logoro e delicato equilibrio
psicofisico. Il ritmo acquisito in tanti anni gli era entrato nel cervello e
quella seppur breve pausa gli procurava degli scompensi al sistema nervoso.
Prese così l’abitudine a sistemarsi il cappello, soffiarsi il naso o grattarsi
in quel posto. Col passare dei giorni scoprì perfino che poteva raggiungere l’armadietto
sistemato a tre metri dalla postazione, aprire l’antina, estrarre qualcosa,
richiuderlo, e ritornare in tempo per prendere i pezzi al termine della
lavorazione. Si ritrovò a fumare molte sigarette più di prima e addirittura
allargò i suoi orizzonti volgendo lo sguardo oltre la sua postazione.
Proprio in quei giorni, passando da
quelle parti, mi sentii salutare in quel suo modo originale.
«on.roi.gno.uB oc.narF!» disse.
«Buongiorno Giovanni!» risposi quella
volta. In seguito presi l’abitudine di soffermarmi davanti alla sua fresatrice
per scambiare qualche battuta nel linguaggio dei gamberi, come lo definiva lui,
ma con scarsissimi risultati e ricordo che i miei tentativi goffi lo
divertivano molto.
Aveva passato ormai la cinquantina e
forse pensava già alla pensione, al meritato riposo, senza immaginare quanto
fosse lontano quel sospirato momento e che l’azienda, prima di quell’evento,
aveva in serbo per lui ancora delle grosse novità.
Infatti, una mattina di un autunno caldo, si ritrovò un altro
sinistro individuo alle spalle, il quale, sempre con il cronometro in mano,
ricontrollò per l’ennesima volta tutti i suoi movimenti nel tentativo di
ottimizzare i tempi di produzione. Si sperimentarono pertanto anche nuove
velocità di taglio e di trasporto automatico, allo scopo di ridurre al minimo i
tempi morti che Giovanni, con il suo comportamento, non aveva saputo
dissimulare.
Il risultato fu che il tempo impiegato
da Giovanni per grattarsi in quel posto, fosse destinato con più profitto per
eliminare meccanicamente, cioè con l’ausilio di una mola elettrica affiancata
alla fresatrice, le superfici rotonde dei cerchi che ancora presentavano
residui di saldatura.
Tempo impiegato: un primo e ventotto
secondi netti. Quaranta pezzi all’ora, trecentoventi al giorno, milleseicento
la settimana, circa sessantaquattro mila al mese. Più di mezzo milione di
cerchi in un anno.
Giovanni divenne suo malgrado famoso in
tutto il reparto ed anche nel resto dell’azienda. Era impossibile passare dalle
sue parti e resistere alla tentazione di soffermarsi per vederlo in piena
azione. In quei gesti semplici, essenziali e cadenzati, era concentrata tutta
l’esperienza, la tecnica, l’alto grado d’efficienza tecnologica applicata al
lavoro in serie e per l’azienda quello divenne l’esempio e il modello di
funzionalità da raggiungere.
Molti definirono il caso di Giovanni
semplicemente penoso, ma i più impegnati politicamente lo considerarono un
pericoloso precedente, quindi materia da discutere e dibattere all’interno del
sindacato aziendale. I delegati di linea e di reparto cercarono di convincerlo
ad avanzare una formale protesta, ma lui, caparbio e in fondo anche orgoglioso
di tutta quell’attenzione, abbassò il capo ancora una volta, e di protestare
non ne volle sapere.
Subì con dignità e rassegnazione qualche
burla e qualche sberleffo da parte dei soliti cretini, ma la maggioranza prese
le sue difese e ben presto il caso si sgonfiò, perse d’interesse, e Giovanni
rimase solo a combattere la sua battaglia quotidiana.
Prima di partire per militare lo salutai
abbracciandolo e mi disse con gli occhi lucidi:
«non eranrot ùip iuq!», non tornare più
qui!
Invece tornai e Giovanni era ancora lì.
Avevo sperato tanto di trovarlo in un posto più consono alla sua età, ma nessuno
aveva più interesse a sollevare il problema, perché temevano di essere
costretti a sostituirlo, e sentii molti asserire e giurare che piuttosto
avrebbero preferito licenziarsi.
Lo trovai quindi con le spalle più
curve, e nei brevi e sporadici incontri, constatai con rammarico che era
diventato più taciturno, meno pronto alla battuta, e più riservato. Cercai di
decifrare il suo sorriso enigmatico, senza affrontare mai apertamente il suo
problema, anche perché della sua situazione, aveva l’orgoglio e la decenza di
non lamentarsene continuamente.
Poi mi sposai e dopo la nascita del mio
primo figlio, Giovanni ‒ come tutti quelli che andavano in pensione ‒ salutò i
colleghi con gli occhi lucidi e il giorno dopo calò il sipario sui cerchi e
sulla storica fresatrice.
Tutti si domandarono preoccupati a chi
sarebbe toccata quella sciagura, invece la fresatrice fu portata via con una
gru e la produzione dei cerchi venne definitivamente sospesa.
Seguimmo con interesse tutte le
operazioni degli attrezzisti, consapevoli che con quella macchina se ne andava
un pezzo di storia della vita d’un uomo e anche della fabbrica stessa. Nessuno
ebbe il coraggio di domandare apertamente la ragione che aveva indotto
l’azienda a cessare quel tipo di produzione, ritenendosi già soddisfatti del
pericolo scampato.
Raccontai gli ultimi avvenimenti al mio
amico Mario, e per maggior sicurezza, nel caso in cui si fosse dimenticato
qualche particolare, ricapitolai tutta la storia. Gli rammentai che Giovanni
conosceva a memoria tutte le formazioni della nazionale italiana di calcio e
che le poteva elencare senza mai sbagliare, anche all’incontrario, e che quando
parlava di Gimondi gli brillavano gli occhi.
E se parlavi male del suo Torino non ti
rivolgeva più la parola, infine gli ricordai che non lo avevano chiamato a
Lascia o Raddoppia soltanto perché la Paola Bolognani era una bionda con due
tette da far paura. Mario mi ascoltò con la solita faccia e infine mi sorprese
con una domanda intelligente, alla quale ancora oggi non saprei dare una
risposta sicura:
«Ma si può sapere infine,» domandò a
bruciapelo, «a che servivano tutti quei cerchi?»
Rimasi a bocca aperta e con gli occhi
sbarrati sul suo grugno che cambiava rapidamente espressione, cercai
inutilmente nella mia mente vuota una risposta.
«Eh, ma allora» mi disse, allargando le
braccia e scuotendo il capo, «Sei proprio un “alrip”.»
E se ne andò salutandomi con un gesto
sin troppo eloquente.
dovrebbe essere Alrip vero? non Arlip
RispondiEliminasempre maestro di storie piene di significato e di ottima scrittura caro Frame
ciao e buona giornata
;-) hai ragione :-) ho corretto... sono proprio un alriP.
EliminaGrazie neh
Mi sono permesso di postare il racconto su facebook a mio nome e girarlo agli Amici.
EliminaSe non concordi, dimmelo.
Sid
E' un onore per me.
EliminaGrazie
Un racconto molto, molto bello. Hai saputo creare l'atmosfera di un ambiente che di per sé poco si presta ad attirare l'interesse, ed invece si rimane incollati a leggere sino alla fine.
RispondiEliminaMolto preciso nelle descrizioni tecniche e molto capace a creare un alone che sembra di mistero, ma mistero non è.
Poi con Alrip, ho imparato un nuovo termine.
Complimenti.
Le cose imparate, sudate e studiate in gioventù diventano il sottopelle, tutto il resto è scorza.
EliminaE' un po' "romanzata" la storia, ma gli elementi essenziali sono veri o perlomeno io li ricordo come tali.
Potrebb'essere fantasia, potrebb'essere storia vera dei miei tempi.
RispondiEliminaFatto sta che mi ci sono calato tutto intiero, galleggiando sui ricordi man mano che procedevo nella lettura.
Chaplin con < Tempi moderni >, ove parodiava la paranoia delle catene di montaggio di recente introduzione ( 1936 ).
Il Valletta dei miei tempi che aveva preteso la tempistica cronometrata negli stabilimenti Fiat.
Stachanovic ( 1906-1977 ) del paradiso sovietico che nel 1935 stabilì il primato nella quantità di carbone estratto individualmente, tanto che nel mondo si coniò il relativo neologismo.
Il giovane rampante Ford che partecipando ad un 'Esposizione ed alla vista in ingresso di una scimmietta che instancabile pedalava in bicicletta sbottò a dire < Ecco l'operaio ideale senza bisogno della pausa pranzo >. Al che il cronista accompagnatore ebbe a rintuzzare < Sì, ma quella non compera nè guida automobili! >.
E poi la leonessa di Pordenone, allora minorenne, belloccia e sogno degli italiani tv.
A che continuare?
Bravo Franco, soltanto vorrei ricordare che gli operai metallurgici ( e non solo ) degli anni cinquanta morivano poco dopo la pensione, verso il sessantesimo.
Se le cose sono migliorate, lo si deve anche all'impegno riformatore del lavoro di allora di noi vecchi novantenni e dintorni...
Siddharta
Diciamo che è una via di mezzo tra la fantasia e la realtà.
EliminaPer quanto riguarda i riferimenti che hai fatto mi lusingano e non nascondo di essere sempre stato influenzato dal film di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso. Quel film è un documento in sintesi di quegli anni, e di quel tipo di società.Si arrivava alla pensione veramente sfiniti, a sessant'anni si era veramente vecchi, ma non dimentichiamo i danni causati al fisico e allo spirito dal lungo periodo della guerra e prima ancora se non la fame nera, una alimentazione povera, insufficiente.
Infine non dimentico i risultati ottenuti con le lotte sindacali, soprattutto le norme che hanno migliorato le condizioni generali sul lavoro, nel campo della sicurezza e della salute.Per il resto credo che l'eccessiva politicizzazione del movimento operaio abbia alla fine nuociuto alla categoria stessa. Ai nostri tempi un operaio specializzato aveva la sua dignità, come si diceva allora, "l'era un sciurèt" adesso invece "lè un por crist" e basta. Di chi sia la colpa ancora non lo so,
Sarò un Alrip anche io ma mi riesce difficile immaginare l'uso dei cerchi eheheh.
RispondiEliminaOvviamente certi riferimenti possono essere colti solo da chi appartiene alla stessa generazione (al Toro ed a Gimondi ci arrivo.. ma Paola Bolognani, chi era costei?).
In realtà l'aspetto che ritengo più pregevole è l'assenza della laudatio temporis acti.
Quanto alla "cronometratura" dei tempo di lavoro, in realtà, c'è anche oggi, sia pure con modalità differenti.
Nel racconto si coglie l'eco della scomparsa - o dell'inizio della scomparsa - del mondo industriale italiano, ma questo discorso ci porterebbe lontano..
Sui cerchi di Giovanni lasciamo ancora il mistero, non indaghiamo.
EliminaLa Bolognani era una biondona maggiorata che sapeva tutto di calcio, e spopolava in tv con Mike Bongiorno negli anni cinquanta. Nemmeno io me la ricordo bene.
I temp indrè, per me rappresentano soltanto il passato, ma non ho grandi nostalgie o recriminazioni da fare. Ma di una cosa sono sicuro, quando i mulini erano bianchi i biscotti facevano schifo. Nel senso che non rimpiango il passato, non lo demonizzo e guardo ancora avanti. Non è che ci veda tanto tanto bene, ma tengo sempre i fari accesi e guido con prudenza.
Ciao
Rimpianto forse no, ma una certa sana invidia per la Bolognani della tv d'antan forse sì.
EliminaAlmeno per me.
Bionda, prosperosa, prorompente, compita e intelligente.
Ah, bei tempi...
Sid
Con certi autori, il piacere inizia ancor prima della lettura, perché è sicuro che non si rimarrà delusi :-))
RispondiEliminaA livello di parere, non posso che ripetere le stesse cose: la scrittura è densa, scorrevole, intrigante, ironica senza strafare, e bla bla bla.
Anch'io ho pensato al film Tempi moderni, e al ritmo frenetico imposto nelle varie industrie.
Produrre per consumare, produrre per consumare, produrre per consumare ...
Solo oggi ha preso a circolare l'idea che l'esistenza personale non può esaurirsi in quel diktat, e che altri valori avrebbero diritto di cittadinanza..
L'esperienza di Giovanni, malvisto dai colleghi per la totale dedizione al lavoro, mi ha fatto pensare che anche negli uffici pubblici chi si impegna e si guadagna onestamente il proprio stipendio non è molto apprezzato nel suo ambiente. La domanda che circolava ai miei tempi più frequentemente era ( e penso che lo sia anche oggi) : Ma chi te lo fa fare? Pensi forse che ti daranno una medaglia?
Questo, naturalmente, per nascondere la propria ignavia e la scarsa propensione all'impegno fattivo.
Rinnovo i miei complimenti.
Letto su fb (grazie a Sid) e così da me commentato:
RispondiEliminaScritto con la solita bravura. Un racconto che parla del passato, ma che, da come vanno le cose, predice il futuro e, in alcuni casi, il presente.
Sono già molte, infatti, le aziende che "usano" la manodopera fornita dalle cooperative, e so che i ritmi di lavoro sono più o meno simili; se no il giorno dopo te ne stai a casa.
Ma non solo non è cambiato nulla, ma il potere d'acquisto dei salari è diminuito.
EliminaGrazie e scusa per il ritardo.
Bello questo spaccato di vita preso dal periodo in cui trovare lavoro era solo una questione di differenza di paga o di vicinanza da casa. Quanto ai cerchi credo che questo non fosse il vero motivo dell'impiego di Giovanni, ma, semmai, un modo di dare ai colleghi e all'azienda un esempio e una certa immagine di concretezza e serietà.
RispondiEliminaScrittura senza sbavature per cui con te la fresatrice non sarebbe proprio servita.
Un caro saluto.
Caro Sergio sei troppo buono,
EliminaContento ti sia piaciuto.
Mi hai strappato sorrisi e ricordi. Essere metalmeccanico era un salto di qualita',un vanto.
RispondiEliminama non erano I soli a dover lavorare col cronometro: lo erano un po' tutti. Mio marito lavoro' per un breve periodo in una fabbrica di piatti, un po' come I cerchi di Giovanni, ne faceva ad un ritmo incredibile ,si licenzio' prima di spiattellarsi una mano sotto la pressa.
Che bel racconto Franco! Mi era sfuggito su fb! Bravissimo
Troppo buona, grazie :-)
EliminaChe sia fantasia o realtà poco importa Frame. Quanta tenerezza Giovanni, quanto bello il racconto, quanto bravo tu!!!
RispondiEliminaUn abbraccio