–Voglio
dire, non è il genere di informazione a cui si pensa volentieri. Non se avete
un certo appetito, non se le portate del servizio cutering sono apparecchiate a
pochi metri da voi e non se avete messo gli occhi sulle uova di quaglia in
salsa spagnola. O sui quadretti di tonno al cedro candito.
–E
soprattuto, diciamolo, non se la testa di Chomsky vi strizza l’occhio ammiccando,
mentre le sue labbra provano ad articolare parole impossibili da percepire.
–A sentire i
laboratori che si occupano della sua conservazione, nessun altro terreno di
coltura avrebbe il perfetto equilibrio di ormoni, proteine e sali inorganici
del liquido amniotico. Nessun altro brodo nutritivo sarebbe più ideale per
mantenere intatte le funzioni cerebrali del professore emerito.
–Fino a
pochi anni fa era qualcosa impossibile da concepire: Teste mozzate come ciliege
sotto spirito che strizzano l’occhio.
Nessuno
degnerebbe quel moncherino di più di un cenno, se avesse intenzione di
assaggiare il consommé di gramigna. O gli involtini di pesce spada in salsa
Villeroy.
–Gli abiti
che indossano gli invitati alla soirée sono esattamente quelli che vi aspettereste
di trovare ad una cena di gala: uomini in smoking con morbidi reverse a lancia
e signore dalle scollature profonde come desideri inconfessabili.
–Donne tra i
venti e i quarant’anni, felici e sorridenti, la pelle resa luminosa dalla
gravidanza, i capelli più lucidi e folti per il mix di estrogeni e
progesterone. Ciascuna di loro porta in grembo un bambino. Tutte quante
sfoggiano un ventre da ottavo mese. Sembrano esattamente ciò che sono:
Gravidanze sincronizzate.
–Non è
chiaro come sia potuto accadere, eppure Stuart Richardson non fatica a
immaginare il momento in cui tutte queste gestanti cominceranno ad avere le
doglie, tra circa un mese, nel medesimo istante. A migliaia di chilometri di
distanza l’una dall’altra. Quelle che Stuart ha in mente sono gravidanze ad
orologeria.
–Può vedere
queste donne protette nelle loro case, tra mura color tortora, stese su comode
chaise longue. Donne dalle profonde cabine armadio. Non è difficile, per lui,
immaginare il momento in cui capiranno che l’attesa è finalmente finita, che il
giorno in cui potranno afferrare la valigia preparata mesi prima è arrivato.
Tra non molto potranno rimuovere il cellophane dalle ruote del passeggino,
scartarlo come un pacco sotto l’albero, consumate dalla felicità.
–Stuart
‘Skip’ Richardson non riesce a guardarle senza provare un senso di profonda
tristezza. Quelle donne, insieme all’ironia grottesca della testa mozzata sotto
la campana, hanno fatto perdere l’appetito a Stuart Richardson.
–Cuccioli
d’uomo rannicchiati dentro ventri gravidi, affamati, prensili e impazienti.
Stuart li percepisce attorno, come
ordigni in ragnatele di placenta. Come mine in utero. Non sentire le voci
dentro a quelle donne, è questo il motivo che lo spinge a restare defilato.
–Per
l’occasione indossa un mezzo tight, il panciotto preso a nolo è sbottonato, il
fazzoletto nel taschino come una sbavatura sulla prima neve. Alla quarta vodka,
Stuart allenta il nastro del papillon e infila la fusciacca nella tasca della
giacca. Spinge lo sguardo oltre la folla, si concentra sulla parete in fondo
alla sala, i microfoni sul palco ancora spenti. Dietro alle sedie vuote, il
wideo wall al plasma trasmette in loop i due minuti e trentaquattro secondi che
hanno cambiato il mondo.
–Stuart lo
conosce a memoria, come chiunque altro, ma guardarlo fino allo sfinimento è
l’unico modo per non pensare a quelle incubatrici fasciate in abiti da
quattromila dollari, avvolte in fili di perle, in equilibrio su tacchi
prodigiosi, appuntiti come penne a sfera.
–Il video è
quello ripreso dalla videocamera di Gordon Cadish, quarant’anni, al tempo della
registrazione impiegato al Walmart Hall, reparto ferramenta e utensili. In
occasione dei quarti di finale della lega juniores aveva chiesto in prestito
alla sorella, tale Maudy Cadish, coniugata in Fishman, la Canon HD da 2,3
pollici con cui sperava di riprendere la vittoria della squadra del proprio
figlio, il giovane e, va detto, non validissimo Kenyon Cadish.
–Quella
partita è stata consegnata alla storia da ormai dieci anni e, come tutti sanno,
non vide mai il fischio finale.
–Nel momento
in cui venne postato in rete, il video diventò virale e fece il giro del mondo
in soli diciassette minuti. Un record imbattuto ancora oggi. Quello che il
video mostrava, e che in un montaggio dal clock perpetuo ripropone ancora oggi
a Stuart, è il primo lanciatore degli Smooth Central, un ragazzino dal naso
affilato e di cui nessuno ricorda il nome, mentre sale sul monte di lancio e
picchia il tacco a terra.
–L’obiettivo
di Gordon scivola come una parola sdrucciola sulla pedana ai piedi del
giocatore, si può notare un leggero sbuffo di polvere alzarsi dalla terra
battuta. Il ragazzo, imitando il movimento scaramantico di Joe di Maggio, mima
un mezzo stride, poi prende posizione e ruota leggermente i piedi. Prima il
destro e poi il sinistro.
–La Canon
indugia ancora in un close up molto stretto, i tacchetti delle scarpe fanno
presa e il microfono della camera registra, dalla tribuna alle sue spalle,
qualche grido di incoraggiamento. A quel punto l’obiettivo inquadra il
lanciatore degli Smooth Central nell’attimo in cui si prepara al lancio, mentre
osserva le tribune sfiorando appena la visiera del cappello. La lettera S e la
lettera C sono ricamate sulla tesa del berretto, filo dorato su sfondo verde.
Per qualche attimo viene inquadrato il totalizzatore sugli spalti: il ragazzo
ha fatto segnare due ball e ancora nessuno strike. La camera torna al campo di
gioco e sul diamante cala il silenzio delle grandi occasioni. Il ragazzo tira
un respiro, carica il braccio e lascia partire un backspin velocissimo.
–A diciotto
metri di distanza, in attesa nel box di ricezione, il giocatore della squadra
avversaria osserva arrivare il bolide e sventola la mazza: la palla viene
colpita e vola in alto, veloce sopra la seconda base. I tifosi sugli spalti
rumoreggiano, per un secondo l’inquadratura sobbalza e perde di definizione. Un
attimo soltanto, poi la Canon segue la direzione della battuta fino a quando
l’obiettivo inquadra la fascia dell’esterno destro; è la posizione di gioco del
biondino di nome Jeremy Badoglio, che finalmente mette un po’ di birra nelle
gambe e si lancia dietro la palla, seguendo la parabola a campana. Le
intenzioni sono buone, ma è evidente come Jeremy sembri davvero troppo lento e
il tiro troppo alto, troppo veloce.
–È a questo
punto che il giovane Jeremy fa quello che ogni altro ragazzino, gravato di una
responsabilità che è consapevole di essere a un passo dal frustrare, farebbe in
preda all’ultimo slancio di disperazione. Così, mosso più dall’istinto che
dalla ragione, Jeremy allunga il braccio, tende il guantone e infine spicca il
salto.
–Ed è
esattamente in quel momento, in quel luogo esatto, come dadi rotolati per
sbaglio sul tappeto verde, che l’otto settembre del 2023, nel cuore esatto
degli Stati Uniti, l’impensabile, l’imponderabile, il meraviglioso, accade per
la prima volta.
–La
considerazione a cui Stuart si lascia andare mentre riguarda il video è
semplice: si dice che tutti ricordino cosa stessero facendo quando spararono al
presidente Kennedy, o quando le torri del World Trade vaporizzarono in un
pomeriggio. Per lo stesso principio, tutte le persone nate dopo il 2023
ricordano esattamente dove fossero quando Jeremy Badoglio, in una luminosa
mattina di metà settembre, si sollevò da terra, alto sul diamante di baseball
in Garret Park, e si librò in volo, sparendo dietro il campanile di arenaria
della chiesa episcopale di St. Andrews, superando in un balzo la tenda a
strisce rosse e bianche del chiosco di hot dog, tra gli sguardi attoniti degli
spettatori di una partita della lega Juniores.
–Jeremy
‘Superboy’ Badoglio.
–Questo
ragazzino della middle class americana, secondogenito del redattore di un
giornale locale e naturalizzato da tre generazioni, è stato la prima persona a
cui sia successo di oltrepassare il senso comune, ignorando le leggi della
fisica fino ad allora conosciute, spingendo a forza la realtà dentro a un libro
di Bradbury o, meglio ancora, un racconto di Dean Koontz.
–Un
ragazzino che a guardarlo non gli avresti dato due lire. Arrivato alla soglia
dell’adolescenza senza aver mai riscosso troppa popolarità tra i suoi coetanei
– Jeremy stesso avrebbe successivamente raccontato come la cosa più cool che
avesse mai fatto fino a quel momento era stato postare su internet la reazione di
suo fratello nel momento in cui scopriva di aver perso l’account di gioco a
Gta: poco meno di diecimila utenti avevano visto e condiviso la reazione
isterica di Gordie Badoglio mentre cercava di strangolarsi con il braccio
anodizzato della lampada da scrivania. Con questo, non si può dire che Jeremy
avesse scalato le classifiche della notorietà.
–Quindici
anni di esistenza geek cancellati in una domenica mattina.
–Ancora
oggi, a più di dieci anni di distanza da quel giorno, il viso di Jeremy resiste
sulle confezioni di cereali di mezzo mondo. I contratti con gli sponsor lo
hanno reso, per motivi che sembra inutile sottolineare, il ragazzo più popolare
del pianeta.
–Il
miracolo, perché nessuno dubitò che potesse trattarsi di qualcosa di meno o di
diverso, si compì nella cittadina di Derby, ventitremila anime, a neanche
mezz’ora di statale da Wichita, Kansas. Lo stato di Dorothy, del cagnolino Toto
e della strega cattiva dell’Est, quella con le scimmiette volanti vestite da
lifter.
–La modesta,
sonnolenta cittadina di Derby, con le sue case basse di mattoni a vista, i
giardini senza recinzioni e il franchising di Starbucks a due passi dalla
biblioteca comunale, è diventata famosa per aver dato i natali al primo essere
umano che abbia mai spiccato il volo con le sue sole forze. Non ci sarebbe
bisogno di sottolinearlo, ma è una cosa che pomperebbe un po’ di orgoglio nelle
strade di qualunque cittadina, soprattutto se fino a quel giorno il momento più
alto della vita sociale dell’ameno borgo era stato il national Bar-B-Que: la
sfida culinaria con lo stand del Cowley College, il banco delle mele candite e
la raccolta fondi per gli sfollati dalla stagione dei tornado. Che è anche un
gesto nobile, ma non è un evento che ti piazza in cima alla lista di ‘America,
101 cose da vedere’.
–Prendete un
automobile o aprite Google Maps, poi viaggiate sulla statale 35 fino allo
svincolo per Mulvane: superato il ponte sul fiume Arkansas verrete accolti in
città da uno sfacciato cartello pubblicitario con il sorriso smagliante di Jeremy
e l’invito, rosso su sfondo giallo, a visitare il museo del ragazzo ‘che ha
mandato Superman in soffitta‘.
Con i
sentiti ringraziamenti di tutti i cittadini di Derby.
–Indecise e
adolescenti, centinaia di calligrafie diverse ricamano il margine inferiore del
cartellone pubblicitario. Ti amiamo, Jeremy.
–Non è
chiaro come sia iniziata esattamente. Quello che sappiamo è che Jeremy fu il
primo, ma non il solo.
–Undici mesi
dopo i fatti di quel video, i canali news di tutto il mondo trasmettevano le
immagini di Elias Varesco, un ventenne lituano di Vilnius, mentre spostava un
piccolo Van Ford del ’97 con la sola forza del pensiero. Il ragazzo,
profeticamente, aveva indossato una tuta con lo Swoosh, l’aletta stilizzata
della Nike, che non tardò a metterlo sotto contratto per la cifra record di
seicento milioni di dollari.
–Realpolitik:
la Cina arrivò sul podio buona terza grazie a un’insegnante di ventisei anni
del cantone Hunan che, con grazia inaspettata, riuscì ad afferrare un cucchiaio
posato su un tavolo in un altra stanza, allungando il braccio di quasi nove
metri. Liu Xijan, questo il suo nome, nella pubblicità della Monsanto indossa
un aderente costume ceruleo e il suo sorriso aperto ricorda la pelle tesa di
una maschera di porcellana.
–Secondo una
stima abbastanza precisa, la percentuale della popolazione mondiale che ha
sviluppato un qualche tipo di capacità va ricercata attorno alla sesta cifra
dopo la virgola. Non sono molti, se ci pensate. La percentuale è molto
inferiore a quella dei celiaci sparsi per il mondo.
–Bisogna
provare a immaginarlo, la mattina siete nell’auto salone di vostro zio a
svilire la vostra autostima cercando di vendere il modello eco della Kia, e la
sera siete su tutti i notiziari perché avete salvato una bambina volando attraverso
una parete di cemento.
–O perché
avete previsto un terremoto.
–È successo
a un tizio che si chiama Rupert Horlo. Oggi è direttore dell’Osservatorio
Sismico di Berlino e due anni fa gli hanno conferito una laurea al MIT.
Gliel’ha consegnata l’astrofisico tetraplegico, quello che muove il joystick
con la lingua. Andiamo, sapete chi.
–Il nostro
Rupert è stato sette volte uomo People, ha una poltrona fissa al David
Letterman e guadagna otto milioni l’anno al netto delle tasse.
–Che ci
crediate o meno, là fuori c’è davvero qualcuno in grado di volare a gravità
zero o capace di spostare i carro armati con il mignolo.
–A dispetto
di quanto gli analisti si erano sforzati di prevedere, colossi
dell’intrattenimento come la Marvel crollarono come giganti dai piedi d’argilla
in un tempo ridicolmente breve.
–Josh
Manworst lasciò la guida della Warner Bros lanciandosi dalla finestra del suo
ufficio nella Contea di Los Angeles, California, appena due giorni dopo che le
azioni della società scesero alla quotazione che avevano nel trentotto, quando
uscì il primo albo di Nembo Kid. Ritrovarono Josh ventisette piani più in
basso, sul tettuccio accartocciato di una Bantley, più morto di Jimmy Hoffa. Le
foto apparse sulle prime pagine dei giornali serali non gli resero giustizia.
–Il mondo
dei Comics crollò. Battuto, nell’immaginario, da epigoni in carne e ossa:
uomini e donne che non si limitavano ad apparire sulle pagine di albi colorati,
cartonati e rigidi, ma icone vive e vegete che rispondevano alle domande di
Ophra Winfrey, sprofondati in poltrone capitonnè. Autentici supereroi che
recitavano nei films sponsorizzati dai più grandi studios o che inauguravano le
Olimpiadi per cachet a sei zeri, rosicchiando olive da Martini.
–Il mondo
accademico, per una volta ammutolito e incredulo, incapace di indagare le
ragioni per cui questo fosse accaduto, non potè far altro che arrendersi
all’evidenza.
Neppure
Stuart ha parole per spiegarlo, ma è convinto che con un periodo di tempo
ragionevolmente lungo a disposizione, la probabilità che certi eventi non
accadano sia davvero bassa.
–Chi crede
che il Signore sia onnisciente per scienza infusa sbaglia, la verità è che Dio
esiste solo da un tempo sufficiente lungo per aver visto succedere di tutto: in
fondo è uno dei vantaggi di avere i piedi a penzoloni sull’universo.
–Ma siccome
l’ironia ha probabilmente per genitori degli ebrei dell’East Side, e non
celesti, bisogna ricordare che non tutti sono stati altrettanto fortunati.
–In fondo è
il motivo per cui Stuart e un altro centinaio di persone sono intervenuti alla
soirée. Incubatrici comprese, Uteri in pieno countdown.
–Heros
Maybe, è il titolo serigrafato sull’invito che Stuart ha in tasca. Le due
parole sono riportate sullo striscione all’ingresso, sulle spille, sulle penne
personalizzate. Sono persino incise sulle saponette nei bagni.
–Heros Maybe
è anche il nome di quello stupido reality.
–Lo passano
sul canale HBO, lo presentano Billy Cristal e Jessica Biel. Riuscire a
teletrasportarsi tra le sue cosce, ecco un potere che a Stuart non
dispiacerebbe avere. Ma è inutile recriminare. Le opportunità che una persona è
in grado di trovare per rendersi ridicola, in fondo sono praticamente
illimitate.
–Heros
Maybe, il reality, è l’appuntamento planetario del giovedì sera: la cronistoria
di uomini e donne strappati al loro quotidiano da poteri inutili, superflui,
dimezzati; uomini e donne che un giorno hanno scoperto, tra il divertimento
generale, di riuscire a trasformare l’oro in stagno. O di essere in grado di
invecchiare anzitempo e in modo irreversibile. Freaks da circo Barnum, geni
sterili, in affanno dietro il loro quarto d’ora di celebrità, felici di esibire
la singolare deformità che il destino ha scelto per loro.
–Individui
fortunati per metà, persone che rientrano nello zero virgola di quelle che
hanno ricevuto un dono, per quanto inutile o grottesco. Un piatto troppo
ghiotto perché la tivù commerciale se lo lasciasse scappare. Ne misero sotto
contratto una ventina e li chiusero in una hacienda del Nuovo Messico,
circondati da campi coltivati a zucche. Poi fu sufficiente accendere le
telecamere per dare vita ad una versione più sciagurata e triste del Truman
Show.
–Wannabes,
li chiama Stuart. Quelli che non potendo, vivacchiano nel tentativo. I poteri
che queste persone possono vantare, se paragonati alla capacità di Jeremy o a
quelle degli altri Titani, non sono altro che lusinghe da cortigiano.
–Per tutti
questi wannabes, schiacciati dietro il piccolo schermo di un programma serale,
nascondere l’antipatica consapevolezza di essere stati a tanto così
dall’entrare nell’empireo dei fortunati estratti, è quasi impossibile. Per un
crudele scherzo della natura, mai così vicini a coloro che hanno ricevuto un
dono in grado di elevarli sopra la condizione superata e demodè di semplici
Homo Sapiens.
–L’anno
scorso ci hanno fatto anche una serie speciale de I Griffin. Peter, in quelle
puntate, sfoggiava lo stesso dono della presidentessa di Heros Maybe, rendersi
invisibile solo per metà. D’accordo, quella puntata è esilarante, ma
ammetterete che nella vita reale metà del divertimento se n’è andato ancora
prima di iniziare.
–Tutti gli
invitati alla serata di gala sono Wannabes, Stuart compreso.
–Il motivo
per cui si riuniscono ogni anno, la ragione per cui hanno dato vita ad una
lobby dalle intenzioni così grevi, in fondo si riduce a una mortificante
questione di marketing. Quando tre anni prima Amber Connely, una sconosciuta
poetessa di Coney Island, scoprì di essere l’unica in grado di capire cosa
cercasse di farfugliare la testa di Noam Chomsky – cosa che poteva considerarsi
un prodigio anche quando l’esimio poteva disporre del proprio corpo – il
pensiero del filosofo attecchì nelle menti fertili di molti di loro. Accecati
dalla recondita speranza che i figli generati da due wannabe potessero riscattare
il loro fallimento personale grazie a poteri strabilianti, misero a punto un
progetto ambizioso il cui ultimo passo li avrebbe portati a copulare come
scimmie tra i rami. Con lo stesso, evanescente, senso del pudore.
–Stilarono
lunghe liste articolate elencando probabili esiti. Fogli lunghi un braccio
zeppi di percentuali. Tutti i wannabes ansiosi di riscattare la loro condizione
di ridicoli eroi di quartiere mettendo al mondo un piccolo, autentico
Wolverine, si sottoposero a estenuanti esami clinici. Test della fertilità.
Test di aggregazione piastrinica. Check-up endocrini e preconizzatori di
malattie generative ed autoimmuni.
–Gli alberi
genealogici dei candidati vennero potati e scossi. Un precedente psichiatrico
poteva costare diversi posti in classifica; al contrario, un bisavolo con un
curriculum accademico garantiva un certo margine di spinta verso i vertici
della lista.
–Per andare
sul sicuro, tutte le femmine di wannabe si sottoposero a intensivi cicli
ormonali. E così, quando furono individuati i partners più affini e
promettenti, cominciarono ad ammucchiarsi nelle stanze d’albergo di tutta la
West Coast, senza ritegno alcuno. I nome di una ragione più alta e meritevole.
Perfetto sconosciuto con perfetto sconosciuto.
–Immaginate
l’uomo la cui unica capacità consiste nel far addormentare una parte del
proprio corpo mentre carica la donna in grado di piegare le ombre. O la tizia
in grado di camminare il due percento più veloce del normale mentre gode di
Harsch Füller, l’uomo antiproiettile solo nel quindici percento dei casi.
–Durante la
seconda guerra la chiamavano eugenetica: fantasie bondage da nazisti, visioni
da invasati con la fissazione per batterie di ragazzini biondi e muscolari.
–Adesso lo
chiamano Programma di Fertilità Chomsky, in onore di quella patetica testa
balbuziente.
–Durante il
primo anno non accadde niente, come se la natura stessa cercasse disperatamente
di non dare la stura a una progenie simile.
–Poi l’anno
successivo, a metà autunno, i tamponi cominciarono a cambiare colore nel giro
di una settimana. Come sugli alberi le foglie. Tutti quanti. Così le wannabes
corsero a presidiare le sedie ostetriche, leggermente trafelate, con addosso
quella frenesia, quella sensazione appena percepibile di essere sul punto di
dare un senso alla propria esistenza.
–Può
immaginarlo come un film visto e rivisto, Stuart, mentre abbandona la sala e si
incammina verso il bagno, mentre cerca di scacciare la visione di quegli uteri
puntati sull’umanità.
–Uteri come
obici. Bocche da fuoco da ottanta millimetri.
–Un altro
capitolo sull’ironia di un’esistenza wannabe: medici e ginecologi erano in
grado di sondare ogni segreto di quei bambini, ma non di svelare l’unico che
avesse un qualche interesse per quelle madri. Mio figlio diventerà il nuovo
Jeremy? Il nuovo Elias Varesco? Sarà una graziosa, ridanciana, macchina da
soldi?
–Fu allora
che chiamarono Stuart Richardson. Un altro freaks, naturalmente. Per quanto ne
sappiamo l’unica persona al mondo in grado di stabilire, senza margini di
errori, quale fosse il dono di qualunque altro Wannabe. Una capacità che non
l’ha reso ricco, ma neppure così inutile da costringerlo a guadagnarsi da
vivere rendendosi ridicolo nell’ennesima replica del Gordie Shore Wannabe.
–Sia che si
possegga un potere della caratura di Jeremy, sia che si appartenga alla
schiatta dei wannabe più profondamente geek, per Stuart non fa alcuna
differenza. É sufficiente che queste persone siano entro un raggio di venti
metri da lui.
–L’idea che
più si avvicina alla realtà è quella di un bio sonar, anche se le sue
percezioni sono molto simili a un flusso di coscienza. Stuart non ha mai
sbagliato una valutazione. Spesso, quando credono che lui non senta, lo
chiamano il Notaio.
–È quello
che fa Stuart, certificare.
Certificare
che quell’idiota sia davvero in grado di teletrasportarsi sempre e solo nella
stessa posizione. Constatare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la
piccola Morine riesca effettivamente ad inumidire leggermente gli oggetti senza
toccarli; o che quel ridicolo francese sia in grado di spostarsi attraverso il
tempo alla velocità del tempo. E che dire dell’uomo che può vedere nel passato
per una manciata di secondi soltanto?
Saperlo
ancora prima che lo sappiano loro. Cos’altro potevano volere da lui, se non
questo, le madri dell’Apocalisse?
–Mentre
entra nel bagno, Stuart si domanda se sia ancora in tempo a procurarsi della
segale cornuta. O un oncia di ellèboro. Nel medio evo, per abortire, usavano
l’amanita muscaria. Alcuni libri si sperticavano sull’efficacia della butofenina.
L’aspetto bitorzoluto e goffo dei rospi da cui viene estratta vale da sola il
costo della connessione internet.
–Stuart ci
pensa davanti allo specchio del bagno, mentre si libera del papillon e lo
lascia cadere come uno di quegli oggetti che un giorno perdono interesse.
Mentre ribalta il cestino della spazzatutra e ci sale sopra. Mentre rimuove il
pannello del contro soffitto e recupera il sacco della spazzatura che ha
nascosto la settimana prima.
–Aveva
scartato diverse soluzioni, Stuart. Le ripete nella memoria mentre apre il
rubinetto e si da una rinfrescata. Mentre termina di sciacquarsi il viso e
scuote le mani a mezz’aria. Le salviette dei dispenser sono morbide. Su ogni
singolo pezzo di carta assorbente compare la scritta Heroes Maybe. Stuart si toglie
la giacca e la piega lungo il centro, dall’esterno verso l’interno, prima di
posarla sul ripiano di marmo tra i lavandini.
–Quello che
Stuart ha deciso di fare sarà dato in pasto alle cronache come l’ennesimo caso
di follia che ha spinto un uomo a sigillare le uscite con due lucchetti ad
arco, che ha gridato frasi incomprensibili e che ha conservato l’ultimo colpo
del fucile d’assalto per se stesso. Fine della vita di Stuart.
–Ha
immaginato la foto della sua patente alla tv, i pixel sgranati a causa di uno
zoom troppo invadente.
–Il
particolare che le donne uccise fossero tutte incinta avrebbe solo reso il
crimine ancora più efferato e insopportabile. Una crudeltà che avrebbe scosso
le coscienze di miliardi di persone nel mondo, uomini e donne che mai avrebbero
saputo quanto potesse essere labile il confine tra il male necessario e la
salvezza di tutti. L’unico wannabe al mondo che avesse mai compiuto un gesto
davvero eroico, sarebbe stato seppellito in un cimitero dell’esercito, in una
tomba senza lapide. Fine della vita di Stuart.
–Avrebbero
trovato un nome d’arte adatto alle circostanze. Il killer delle madri. O il
Serial delle Wannabes.
–A stuart
non importa. A Stuart, mentre manda in corto circuito il pannello elettrico del
piano terra, interessa solo cosa si nasconde sotto i tagli premaman di quelle
gonne in maglia morbida, di cosa cresce dietro quelle fasce elastiche.
–La prima
volta che aveva conosciuto quelle donne, quattro mesi prima, in una delle sale
al piano superiore di quello stesso albergo, aveva visto sul loro viso la
stessa radiosa felicità.
–Il cervello
marinato di Chomsky aveva messo in agenda un incontro per capire se fosse
possibile stabilire se i feti fossero dotati. Volevano che Stuart conoscesse le
loro madri.
–Così,
quando si trovò al centro della sala, in mezzo a quelle donne pazze d’amore per
quella della vita che portavano in grembo, tra quei feti ormai cresciuti oltre
la tredicesima settimana, completamente sviluppati, allora sì, Stuart aveva
visto.
–E lo erano,
dotati. In quel caleidoscopio dell’orrore, congelato in un sorriso idiota,
Stuart aveva percepito decine di singolarità che qualunque ragazzino avrebbe
riconosciuto al volo. Stuart aveva riconosciuto non solo le loro doti, aveva
riconosciuto persino loro nomi.
–Lo decise
allora, consapevole che l’unica occasione per rivederle tutte insieme, prima
che si sparpagliassero per gli ospedali di venti stati a partorire neonati
assassini, sarebbe stata esattamente in quella cena di Gala. Stuart non poteva
aspettare che iniziassero a scodellare quelle costole del male ovunque.
–La testa di
Noam Chomsky è la prima cosa che Stuart fa saltare in aria quando mette piede
nella sala smarrita nel black out.
–Dopo la
breve scarica di mitra, Stuart può sentire la teca di vetro andare in pezzi e
qualcosa rotolare oltre il bordo del tavolo, un ridicolo tonfo sul tappeto
ecrù. Fine della vita di Noam Chomsky. O meglio, annichilimento dell’Es, il
vecchio Noam avrebbe gradito.
–Stuart non
ha bisogno di vedere, per sapere dove puntare la canna del mitra. Sarebbe
capace di individuare i suoi bersagli ad occhi chiusi.
–Persino tra
le urla e il panico, Stuart sa precisamente dov’è caduta la donna che porta in
grembo Poison Ivy. O sotto quale tavolo si sia nascosta la biondina con il suo
piccolo Magneto. Ha ricordato tutti i loro nomi, Stuart, dopo quel primo
incontro. Nient’altro che un profondo tuffo nell’infanzia. Deadshot. Carnage.
Bizarro. Mr. Freeze. –C’erano quasi tutti. Più altri di cui non aveva mai
sentito nominare.
–Tutti
pronti ad una nascita corale. Il male per voce sola, che infine sorge
all’unisono.
–La natura
odia il vuoto. E detesta fare sconti.
–Com’è
possibile che nessuno si sia mai chiesto prima, si domanda Stuart prima di
mietere le vite di quei mostri, dove fossero finiti i cattivi delle storie?
-
-
Nota: i
poteri inutili sono stati scopiazzati da vari siti e forum, sia italiani che
stranieri. sono troppi per citarli tutti.
L’unico di
cui rivendico la paternità, è il ‘Potere di capire cosa dice Noam Chomsky’, e
non mi sembra poco. :)
Se avessi
trovato il tag scemità, non avrei esitato.
Senti, ci giri intorno, ci giri intorno... e mi hai fatto venire il mal di testa.
RispondiEliminaMeno male che muoiono tutti quei mostri, mi pareva l'Urlo di Munch.
Mah Serenell!!! Che fai, 'spoileri'???
EliminaMuahahaha... ciao né!
Ahahah! La tua vendetta è potente... Mannaggia, mi hai mandato a fuoco il monitor. Tutto ieri senza poterlo usare: appena accendevo boom... non di rumore ma di puzza di bruciato e andava via l'immagine. Ho dovuto cambiarlo.
EliminaEh caro mio, a chi non è capitato nella vita di “voler essere” qualcuno? Io per esempio sono da sempre un “Rivera wannabe” e in quanto a voler essere blogger, ancora non mi ci sento, ma non mi offenderei se in buona fede mi indicassero come, would be blogger, e infine non andrei in giro cantando, I just wanna be God. Questo lasciamolo fare ad Alice Cooper. Ho fatto questa premessa che centra poco con il racconto, soltanto per togliermi il prurito che ho sentito sulla coda di paglia e per giocare sui vari significati del titolo del tuo racconto.
RispondiEliminaChe dire? Il tema è interessante e anche se il tono è sbarazzino e leggero, offre molti spunti di riflessione di vario genere, ma io filosofo non lo nacqui e nemmeno aquila, ma soprattutto dopo un certo commento illuminante che ho letto sul tuo blog, e che mi piacerebbe pubblicare, non oso aggiungere altro che bravo, wie immer del rest! ( il tedesco col meneghino ci sta da Dio)
La moltiplicazione delle miserie da tinello, ingigantite grazie a una lente satirica che permette all'occhio di chi guarda di sorridere del proprio male,pur riconoscendovisi. Una visione corale portentosa, retta da una struttura narrativa inossidabile. Le miserie e i vizi di ciascuno, componenti care alla poetica di Uriah, qui si sommano in un gigantesco affresco corale. Si fanno proiezione, senza mai trasformarsi in un immobile archetipo. Lo sfiorano,soltanto. Come il tacchetto della scarpa del primo wannabe certificato. Quello sfiorare lì, di un attimo prima del lancio
RispondiEliminaRacconto difficile da decifrare, irto com'è di riferimenti d'ogni tipo e qualità.
RispondiEliminaPenso che a voler indagare necessiterebbero giorni di ricerca ed assimilazione.
Al pari di un saggio ponderoso.
Dando tutto per scontato, la lettura lascia perplessi.
Con il fastidioso dubbio di non averci capito una mazza.
Per carità, ci sia evitata ogni delucidazione autentica.
Per scongiurare che le esitazioni aumentino.
Siddharta
Ci sarà mai un poeta SID...che soddisfi il tuo palato???
RispondiEliminaTu, senza dubbio.
EliminaLi distanzi di molte lunghezze.
Sis
Correggo: Siddharta
EliminaTroppo buono...e mi sai dire perché nessun editore mi chiede poesie per pubblicarle??? No, non mi rispondere poiché già so il perché: Perché ai nostri tempi è raro trovare qualcuno che legga poesie...il motivo? Siamo tutti poeti! E fra di noi difficilmente ci leggiamo. Anzi, dirò di più: c'è il rischio che la poesia diventi archeologia e linguaggio incompreso, incapace ormai di risvegliare i cuori del poco pubblico che ancora ci segue, tanto che i raduni si sono ridotti a incontri fra carbonari e dei soli addetti ai lavori...sich!!!!
EliminaTorniamo a bomba.
RispondiEliminaInizialmente potrebbe sembrare senza capo né coda...e alla fine se ne esce... malconci.
Ciao.
P.S. Siccome la comprensione del linguaggio è essenziale, per non rendere vana la decapitazione di Chomsky, vorrei tradurre il mio: lo trovo un racconto sofisticato, sottilmente perfido, scritto con maestria, anche se mi sembra più rivolto ad un pubblico americano che nostrano.