Non
dimenticherò mai la faccia di mio padre il giorno che, zaino in spalla e sciame
d’api assassine alle calcagna, me ne andai di casa sbattendo la porta.
Dietro sette
centimetri di rovere massello lo sentii inveire qualcosa d’indefinito contro
madre natura, breve preludio alla sua frase preferita:
«Vattene
pure, questa casa non è un albergo!»
La seconda
cazzata, l’anatema più gettonato nelle ultime settimane:
«Ricorda che
se te ne vai, qui non metti più piede!» scagliato con violenza nella tromba
delle scale, mi raggiunse mentre spingevo la maniglia del portone; a un solo
metro dal marciapiede, a un passo dalla strada, là dove aveva previsto che
sarei finito.
La mia
risposta a denti stretti si confuse tra il frastuono del traffico intenso di
viale Corsica nell'ora di punta e lo sferragliare del tram che correva veloce
verso il centro, tra due file di enormi platani: ignari, immobili, spogli.
Non era la
prima volta che minacciavo di trasferire le mie chiappe secche e le mie tasche
vuote da qualche altra parte ma, quella volta, facevo davvero sul serio.
Dopo che
l'ennesima discussione, iniziata per una banalità, era sfociata nella solita
gazzarra, avevo deciso che in quella casa non potevo più restare.
In realtà
mio padre, quei venti e maledetti Euro, me li avrebbe dati senza tante storie,
ma non mi perdonava d'avere rifiutato un posto da precario alle poste e mi
rimproverava di non cercare con costanza e caparbietà un altro lavoro
qualunque. Per questo e forse ancora per l’ultima volta che mi era scappato un
‘fanculo al segretario del suo partito, non sopportava qualunque cosa facessi.
La mia
abitudine di rientrare a casa intorno alle tre del mattino, per esempio, era
una cosa che lo faceva imbestialire. Se decidevo di non uscire e mi rintanavo
nella mia stanza, si domandava se fossi normale e non si capacitava di come
potessi restare tutte quelle ore appiccicato al computer.
Molte volte
me lo domandavo anch'io, ma che potevo fare? Era forse colpa mia se il
proprietario del ristorante dove lavoravo, aveva deciso di ridurre il personale
nel periodo invernale e mi chiamava solo per qualche extra? Era forse colpa mia
se la nave da crociera sulla quale avrei dovuto imbarcarmi come commis di sala
e bar, era ferma in cantiere da tre mesi e non prometteva di salpare prima di
primavera?
Stanco ed
esasperato da quelle continue liti, avevo riempito lo zaino con le mie poche
cose: lo stretto necessario per passare qualche giorno in casa di nonna senza
doverle chiedere di lavarmi le mutande e calzini e avevo sbattuto la porta.
Avevo preso
con me anche il portatile e le cuffie. Per mia madre quello era il segno che
per quella notte almeno non sarei tornato casa. Non avevo un piano ben preciso
in testa, ma con pochi soldi in tasca e in attesa di tempi migliori, dove mai
potevo andare, se non dalla nonna?
Presi il
tram e prima di scendere alla fermata della metropolitana, ripassai mentalmente
il discorsetto che le avrei fatto; dopotutto dovevo farmi perdonare del
dispiacere procurato alla su' figliola prediletta, l’unica, nonché mia madre
Ornella.
«Marco,
questa è casa tua» mi diceva sempre la nonna. «Quando il Signore vorrà, quel
poco che vedi e ancora mi appartiene sarà tuo. A chi vuoi che lasci la mia
casa? A quella povera disgraziata di tua madre? Per permettere a quel
prepotente di tuo padre di giocarsela in borsa?»
Anche lei
aveva qualcosa che non poteva perdonare a mio padre e quando diceva così,
pensava al gruzzolo ricavato dalla vendita di quel casalino di campagna che mia
madre aveva portato in dote e che suo genero, un grullo buono a nulla secondo
lei, aveva dileguato per un investimento incauto.
Impiegai
quasi un’ora intera per arrivare al quartiere LM nella periferia nord-est della
città e altri venti minuti per mettere il dito sul campanello di uno degli otto
appartamenti al quarto piano della palazzina C.
Lasciai
cadere lo zaino sullo zerbino, nonna avrebbe impiegato cinque minuti buoni
prima di aprire la porta, invece questa si spalancò quasi immediatamente e
sulla soglia apparve una giovane donna che mi scrutò con gli occhi spalancati
per qualche secondo, prima di farsi da parte e lasciarmi entrare.
Dal saluto
biascicato capii che era straniera. Dal sorriso, la leggera piega delle labbra
sottili, che mi aspettava e sapeva chi fossi e dal grembiule che indossava, che
non era un’ospite.
La nonna si
era fatta la badante!
Ne avevo
sentito parlare in casa, ma di quella faccenda mi ero completamente
dimenticato. La sua presenza parve subito un serio ostacolo al mio programma,
infatti, proprio sulla soglia del salotto la nonna mi gelò con un perentorio,
telefona subito alla tua mamma che sta in pensiero. Non era proprio un invito a
restare e del resto l’appartamento era troppo piccolo per tre persone. Questo
lo capivo da me, ma c’era sempre la remota possibilità che la tipa dormisse in
camera con la nonna, altrimenti ero spacciato.
«Nonna, ti
sei fatta la cameriera?» dissi invece con un sorriso idiota sulle labbra, per
prendere tempo e per nascondere la mia delusione.
«Chi,
Irina?» si schermì la nonna, lanciando uno sguardo verso la cucina. Dalla porta
aperta si sentivano rumori di stoviglie intorno ai fornelli, mentre un odore
intenso di minestra e cavoli si spandeva per tutta la casa.
La testa
candida della nonna, sempre pettinata come fosse appena uscita dal
parrucchiere, cominciò a oscillare con moto crescente dall’alto verso il basso
e con essa le braccia strette al petto florido, e più sotto la coperta di lana
multicolore arricciata sul grembo. La frequenza tuttavia non era tale da
destare preoccupazione. Avevo assistito a prestazioni ben superiori. La
migliore performance era stata ottenuta il giorno in cui mio padre ebbe a dire
una parola di troppo su Padre Pio. Dopo averlo minacciato di scomunica e
tacciato di eresia, si chiuse per ore in un ostinato mutismo offeso, e per
tutto il tempo, la testa vacillò pericolosamente e incessantemente sul collo
esile, tanto da far temere per il suo distacco.
«Nonna, sono
passato solo per salutarti.» le dissi rassegnato.
«Perché mai,
parti? E dove vai con quello zaino, forse a militare?»
Era inutile
discutere e cercare di farle capire che ormai il servizio di leva obbligatorio
era stato sospeso, non si capacitava che suo nipote non dovesse fare il
militare.
Le dissi
semplicemente di no, che non partivo e che nella sacca avevo la tuta e
l’accappatoio per la palestra.
«Peccato!»
fece lei, «Se non sei buono per il re, non lo sei nemmeno per la regina.»
La battuta
cretina non mi facilitò il commiato, ma ebbe l’effetto di rallentare in modo
sensibile il tremolio del suo capo. La lasciai dopo l’immancabile tazzina di
caffè, più cattivo del solito, e con la promessa vaga che avrei telefonato alla
mamma.
Non avevo
molte scelte: la panchina della stazione dei treni, oppure il materasso del mio
amico Mario. Decisi per quest’ultimo, anche perché cominciava a far freddo e
poi mi andava di parlare con qualcuno. Pensai che Claudia, la mia ex ragazza,
non mi avrebbe lasciato in mezzo alla strada, ma non volevo darle quella
soddisfazione. Dopotutto era stata lei a piantarmi per quel mezzasega del suo
collega. La faccia di quell’idiota e il pensiero di quelle mani che scivolavano
in mezzo alle sue cosce sotto la scrivania, mi accompagnarono dritto e di buon
passo sino alla fermata dell’autobus. Durante il tragitto mi ripassai anche la
scena di quella volta che la sorpresi sul divano del salotto con quel
deficiente di Paolo, uno che abita nel suo palazzo e suona il campanello alla
porta a tutte le ore e per qualunque cazzata.
«Stavamo
solo parlando…» disse la stronza, «Sì, perché tu con me vuoi solo scopare e
invece lui mi rispetta.»
Dovetti
ripassare mentalmente il copione più volte, perché Mario abitava a casa del
diavolo, ma quando finalmente premetti su quel cavolo di citofono, tutto mi era
chiaro e non avevo più alcun dubbio: Roberta era una puttana!
«Mario?»
«Non c’è, è
fuori.»
Cazzo! Era
ora di cena, ero sicuro di trovarlo in casa, invece quel pirla… Chissà dove
stava.
«Non sa, per
favore, dove posso trovarlo?»
«Tu sei
Marco? Se non lo sai tu, che sei suo amico...»
«Sì, va
bene, mi scusi tanto.»
Me ne andai
senza salutare e prima che m’invitasse a salire. Tanto lo sapevo che mi avrebbe
riempito la testa con le solite stronzate. Erano molto simili a quelle di mio
padre e non ero disposto a tanto per un piatto caldo e un letto.
Piuttosto
sentivo già i primi sintomi della rassegnazione aggrapparsi alle gambe, salire
lungo la schiena e gravare sulle spalle. Lo zaino si era fatto pesante e quel
fardello mi pareva la giusta punizione per la mia avventatezza.
Lo sapevo!
Lo sapevo che alla fine avrei dovuto cedere. Lo sentivo che anche quella volta
sarei dovuto tornare a casa con la coda tra le gambe. Mi accasciai sulla
panchina della fermata del diciotto barrato. Finsi di non sapere che mi avrebbe
portato non lontano dalla mia zona e cercai un altro argomento sul quale
riflettere per farmi passare quella mezz’ora.
Il mio
pensiero si concentrò sul culone di una tardona che ballonzolava a un paio di
metri dal mio naso. Un lampo, uno scossone e mi ritrovai gli occhi dentro
quelli di una ragazza alla mia destra. Troppo belli per me. Una frazione di
secondo, solo il tempo di memorizzare il colore e subito la biondina li abbassò
sul libro che teneva aperto tra le mani.
Mio padre…
non mi restava altro da fare che concentrarmi sul mio rientro.
No, era
ancora troppo presto per tornare a casa. Mia madre mi avrebbe costretto a
mangiare la solita minestra riscaldata, decisi pertanto di spendere tutto
quello che avevo in tasca e prendermi una pizza. Scelsi la pizzeria a due passi
da casa, forse per abituarmi all’aria e rendere meno brusco il rientro alla
base.
Portone,
androne, quattro gradini, scala o ascensore?
Non ricordo,
però di una cosa sono sicuro, la televisione era ad alto volume, la sentivo
nonostante i sette centimetri di legno massello e la cosa era insolita per le
abitudini di casa mia.
Girai la
chiave nella toppa e spalancai la porta con l’intenzione d’infilarmi nella mia
stanza senza salutare. Volevo far vedere che non mi arrendevo tanto facilmente.
Il primo ad
accogliermi fu proprio lui e sembrava mi stesse aspettando dietro la porta. Mi
venne incontro con il viso congestionato, gli occhi sbarrati e agitava le mani
sopra il capo come gli avevo visto fare l’ultima volta che la sinistra aveva
vinto le elezioni:
«Abbiamo
vinto, abbiamo vinto, due a zero.» Gridava come un tifoso della curva in preda
al delirio, «Ha segnato Inzaghi, proprio adesso.»
Accidenti, la Champions!
Dovevo
essere proprio fuori di testa per averla dimenticata.
Mi rovesciai
sulla poltrona del salotto, appena in tempo per assistere al triplice fischio
finale e al trionfo dei tifosi sugli spalti dello stadio.
Arrivò anche
mia madre in vestaglia. Sembrava le fossero passati improvvisamente i dolori
alla schiena e con agilità insospettata, si arrampicò sulla credenza e agguantò
il panettone che aveva messo da parte per San Biagio; mentre mio padre apriva
il frigorifero in cerca di uno spumantino.
Intanto io
restavo in silenzio sulla poltrona in mezzo a tutto quel casino, guardavo la
televisione e con la coda dell’occhio non perdevo di vista mia madre, mio padre
e avevo il magone. Certo, avevo tanta voglia di piangere, perché lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo che a loro due, del Milan, della Champions e di Inzaghi, non
fregava proprio nulla.
Una storia che si conclude felicemente e che richiama, seppure alla lontana, la parabola del figliol prodigo.
RispondiEliminaIn sostituzione del vitello più grasso, anche il panettone fa la sua bella figura :-))
Nel vagare di Marco per la città, ho percepito lo spaesamento e la frustrazione che serpeggiano nella società di oggi, dove sembra predominare solo l'amore "liquido" che non richiede un impegno duraturo.
E mi sono anche chiesto (forse andando al di là delle tue intenzioni come autore) quale sia stata (ed è) la vita dei genitori e della nonna di Marco.
Eh... tu mi chiedi troppo:-). Comunque, i genitori e i parenti che ti stanno intorno vivono di riflesso il disagio del giovane di famiglia. Oggi come ieri. Talvolta ci sono delle incomprensioni, ma in questo racconto, anche se forse non sono stato bravo a raccontarlo, volevo affermare il valore della famiglia. Puoi andare dove ti pare, puoi girare il mondo, puoi andare a cercare altrove fortuna, ma nessuno ti vorrà mai bene come tuo padre e tua madre. Questo è più o meno quello che penso io, poi ci vuole culo nella vita e io sono stato fortunato, i miei figli non se ne sono mai andati di casa, mentre io sì che scalpitavo e li ho fatti tribolare i miei, e mi è rimasto un po' di rimorso, perchè er l'egoismo di gioventù non ho fatto in tempo a dire loro grazie come avrei dovuto, sono stato zitto davanti alla televisione e non ho detto un cazzo.
EliminaRingrazio tutti quelli che hanno avuto la bontà di leggere questo racconto di pura fantasia, il quale se non sbaglio è stato scritto tre o quattro anni fa e che prima di oggi avevo pubblicato una sola volta su Neteditor.
Grazie
Per me, dire che è bello è poco.
RispondiEliminaTutte le sensazioni di un ragazzo in giro per Milano e che accumula man mano delusioni e senso di solitudine sono rese con acuta sensibilità, e la chiusa commovente per quelle parole non dette, e che fa capire l'ansia e la preoccupazione patite dai genitori per il troppo ritardo nel rientro... bè, è davvero fantastica.
Bello bello bello. La chiusa ti spezza il cuore. Che si abbia avuto esperienza reale di un agire analogo o che lo si sia solo vagheggiato. I rapporti trasudano dal non detto, come le dinamiche. E in quel non detto c'e un mondo intero
RispondiEliminaLetto d'un fiato, scritto impeccabilmente. Difficile non riconoscersi nel protagonista, per esperienze vissute e per la tua grande capacità di analizzarne la psicologia così minuziosamente. Mi è proprio piaciuto, finale compreso con la sua allusività sentimentale. Bravo Franco!!
RispondiEliminaCome ricorderai l'avevo già letto e, richiamato il commento che feci all'epoca, continuo a pensare che secondo me il ragazzo deve prendere in seria considerazione l'idea dell'espatrio. Stavolta non è accaduto e, in effetti, penso che sia così nella maggior parte dei casi.
RispondiEliminaFaccio mie tutte le felici valutazioni che precedono.
RispondiEliminaE come al solito, mi esprimo sul racconto anche con talune considerazioni generali.
E' vero, la narrazione procede spedita e coinvolgente, formalmente ineccepibile.
Pure la trama è alquanto originale attesi i filoni per lo più correnti.
Ed ha il merito di evidenziare il notevole divario generazionale, con le sue luci e le sue ombre.
Mi si consentano alcune scorrerie di pensiero.
Ciclicamente la storia riequilibra gli scompensi sociali alla sua maniera.
Una bella guerra e/o rivoluzione ogni cinquant'anni e milioni di giovani sfaccendati e annoiati mandati a morire inutilmente.
Dopo di che i superstiti tutti a ricostruire spazi e libertà perduti.
Una volta riagguantato il benessere e la stabilità sociale, si fa di tutto per ritornare alle caverne, morire e soffrire.
Le giovani generazioni attuali, ben si vede, sguazzano nell'agiatezza generalizzata e fanno di tutto per dissiparla: droga, superfluo, vita effimera, divertimento, ozio, disimpegno.
Il racconto è calato appieno nei tempi moderni, in fotografia.
Con i figli scioperati, senza ideologia e credo etico-politico-sociale.
E a stento le famiglie a coprirne le carenze, in attesa di tempi migliori, chissà!.
Una vera tristezza, lo so, forse alle soglie del disfacimento collettivo.
Conchiudendo, una narrativa a meditazione sul che fare.
Ottima/mente, Siddharta.
Per uno dell'Atalanta quella foto è uno schiaffo. Ti perdono soltanto perchè il racconto è buono e merita di essere letto. La nonna in particolare mi è piaciuta, mi ha ricordato la mia.
RispondiEliminaEtaBeta, salutoni