Quando
Irving Crane spese oltre 150 dollari in attrezzi di giardinaggio, tutti, a
Lonefrost, pensarono che fosse uscito di testa. I Crane – e Irving non faceva
eccezione – riuscivano a far appassire anche i fiori di plastica.
La notizia
corse di bocca in bocca, tra scuotimenti di testa e sospiri compassionevoli, ma
nessuno fece commenti troppo feroci. Barbara, la moglie di Irving, se n’era
andata con quel decoratore d’interni e, insomma, Irving meritava un po’ di
rispetto e considerazione.
Essere
piantati era già brutto, ma che il cornificatore fosse un tale che sbarcava il
lunario riempiendo di perline colorate, mandala ed altri aggeggi da finocchi le
ville di quei ricconi dalle parti del Castle Lake, beh… era francamente troppo.
Quindi se
Irving intendeva buttare alle ortiche – sempre che fosse riuscito a farle
crescere – un’inveterata tradizione di famiglia che facesse pure.
E poi,
chissà, avrebbe potuto uscirne qualcosa di buono. Per esempio, se le fosse
cresciuta davanti un po’ d’erba, o qualche albero, o addirittura qualche fiore,
la vecchia, scrostata casa dei Crane, che sorgeva in fondo a King Street,
avrebbe avuto un aspetto più decente.
Noi ragazzi
ci passavamo davanti ogni volta che andavamo a fare il bagno nel Kenduskeag, da
quelle parti ancora lindo e cristallino.
Spesso ci
fermavamo davanti al mucchio di rottami (auto, mobili, elettrodomestici,
attrezzi agricoli e chissà cos’altro) che Irving lasciava a marcire (a
frollare, diceva lui) nel giardino terroso sul davanti.
La scusa era
che, una volta o l’altra, Irving avrebbe riutilizzato metallo, vetro, gomma o
legno, ma tutti sapevano che quella ferraglia era destinata a trasformarsi
indisturbata in quieta, placida ruggine.
Il mucchio
di rottami era la versione locale della Grotta di Alì Babà, soprattutto da
quando avevamo scoperto che c’era un po’ d’erba nascosta dentro un frigo
arrugginito e che Georgina Shuster e Tony Blaine ci davano dentro come ricci
sul sedile posteriore di una vecchia Pontiac.
Dal canto
suo, Irving Crane era lo Strano Vecchio In Fondo Alla Strada.
Irving aveva
poco più di cinquant’anni, ma a noi, che andavamo per i dodici, bastava e
avanzava e poi penso che anche voi abbiate conosciuto uno Strano Vecchio In
Fondo Alla Strada. Se non vi è successo vi è mancato qualcosa.
Il fatto era
che c’erano delle storie sul perché Barbara Crane aveva deciso di non essere
più Barbara Crane e diventare Barbara Diosolosacosa.
Il fattaccio
era successo prima della nostra nascita, ma le storie di corna, nelle piccole
comunità rurali come Lonefrost, dovevano tuttora essere tenute nascoste alle
orecchie pure dei bambini. Avevamo così i bisbigli, le occhiate, i doppi sensi,
le dicerie e, in fondo, era anche meglio, soprattutto se si pensava che, per
andare al cinema, si doveva scendere fino a Castle Rock e spendere un quarto di
dollaro.
All’ombra
della grande quercia che cresceva di fronte alla casa di Irving, proprio dove
King Street si restringeva e sterrava prima di trasformarsi in sentiero, ci
raccontavamo l’un l’altro un mucchio di storie, in parte inventate e in parte
no.
Per esempio,
ci dicevamo che un sacco di ragazzi, in paese, potevano vantare gli occhi
azzurri e i neri, fluenti capelli di Barbara Crane, oppure che laggiù, in
quella casa piantata ben oltre il limite del bosco, quasi ci fosse entrata di
soppiatto, succedevano strane cose – e, nella parola “cose” erano racchiuse
infinite, allettanti, proibite potenzialità.
L’anno in
cui Irving Crane si dedicò al giardinaggio, però, avevamo un nuovo racconto da
narrare, una storia che era solo nostra perché noi l’avevamo scoperta per
primi.
Quell’estate,
infatti, fu chiaro che il vecchio Irving aveva infranto la maledizione di
famiglia.
Mentre il
mucchio di rottami continuava a disfarsi tranquillo e mentre un temporale
apriva un buco nel lato del tetto che guardava a sud ovest, il giardino di
Irving Crane, l’unico tra i Crane, era fiorito.
Era verdura,
per lo più. Pomodori, zucchine, zucche, bietole, cavoli, spinaci, fagioli,
patate, insalata, ma c’erano anche fiori.
Fiori utili,
s’intende, dato che dai loro semi si poteva ricavare olio, ma pur sempre fiori.
Girasoli,
insomma.
Non sono
fiorellini, casomai qualcuno non lo sapesse. Sono padelle sgargianti e dorate,
alti anche un paio di metri, con una corona di petali gialli, vistosi come la
corona di un re, e un ammasso di semi che, a guardarli con la luce giusta,
sembrano occhi di un insetto gigante.
Erano
spuntati ridosso allo steccato, crescendo straordinariamente in fretta, quasi a
compensare tutte le generazioni di vegetali assassinate dal pollice grigio dei
Crane, e premevano sulle vecchie assi come se volessero romperle e invadere la
strada.
Erano
strani, sì.
Fu Connie
Chambers a capire il perché, in un torrido giorno di luglio nel quale era
venuta a fare il bagno nel Kenduskeag – le ragazze potevano ancora andarsene a
zonzo con noi, non c’era nessuna ragione per cui smettessero di farlo, ma,
improvvisamente, c’era una ragione per non dirlo ai nostri genitori, anche se
non avremmo ben saputo o voluto dire quale.
«Non seguono
il sole – disse lisciandosi i capelli ramati (erano quei capelli la ragione per
la quale non avevo detto a mia madre che Connie si era unita a noi? Poteva
essere) – si girano dalla parte opposta».
Era vero.
Non c’era
molto sole intorno alla casa di Irving, giusto quel poco che filtrava dai rami
degli alberi (la contea non si curava di potarli: quel vecchio orso abitava
troppo fuori mano), ma quei fiori non lo guardavano mai.
Al mattino,
quando la luce batteva impietosa sul mucchio di rottami e sul fin troppo
rigoglioso giardino di Irving, erano voltati verso la casa come vecchi
scontrosi, mentre al pomeriggio, quando il sole si era ridotto a una striscia
luminosa arrampicata sul tetto malconcio, erano voltati verso King Street,
chini come passeri sul becchime.
Erano sempre
voltati verso l’oscurità.
Fui io a
trovare loro il nome, forse per la stessa ragione per la quale sono io e non
Connie, anche se è diventata mia moglie, a scrivere queste righe.
Girasoli che
non seguivano il sole, ma le tenebre, rivolti verso il lato sbagliato del
mondo.
Girabuio.
Ne parlai a
mia madre solo un paio di settimane dopo, quando ormai l’estate era una signora
nel pieno degli anni che iniziava a mostrare le prime rughe.
«Non devi
avvicinarti alla stamberga di quel vecchio maiale, Lew. Anzi, non devi neppure
andare a nuotare nel Kenduskeag, capito?» m’ingiunse come se avesse sentito
solo una minima parte di quanto avevo raccontato. Avevo dodici anni, e chi dava
retta alle fandonie di un dodicenne? Forse oggi non è più cosi – o almeno mi
piace sperarlo – ma allora, nel paese di Lonefrost, contea di Castle Rock,
Maine, le cose andavano diversamente. E non solo lì, suppongo.
Non mi
stupii troppo, in ogni caso. Sapevo che nessuno avrebbe mai eletto Serena
Willoughby, mia madre, presidentessa dell’Irving Crane Fan Club, se mai ce ne
fosse stato uno.
Non era
colpa di Irving, anche se eravamo parenti alla lontana (penso che fosse una
specie di cugino di secondo grado) e questo, a Lonefrost, era una ragione
sufficiente per spiegare molte faide.
Era colpa di
Barbara Forrest, poi Barbara Crane e poi Barbara Diosolosacosa o, come la
chiamava mia madre, quella strega.
Ora che ci
penso la chiamava sempre così, “quella strega”, come se chiamarla semplicemente
“la strega” potesse implicare un’eccessiva vicinanza.
Mi dicevo
che ero ancora troppo piccolo per comprendere la ragione d’un simile astio e
una parte di me desiderava rimanere per sempre così.
Era quella
parte di me che, ogni volta che mi guardavo allo specchio, mi mostrava i miei
capelli neri, lucidi come l’ala di un corvo, e i miei occhi azzurri come le
schegge di ghiaccio che si formavano nel Kenduskeag a novembre.
Erano il
marchio di molti ragazzi e ragazze, giù, a Lonefrost, quegli stessi intorno ai
quali si mormorava e ridacchiava, salvo smettere subito quando erano nelle
vicinanze.
Ero grande
abbastanza da indovinare che quel segno dimostrava che i loro padri avevano
fatto certe cosecon Barbara Crane, ma, naturalmente, il mio pa’, che era
partito per la guerra e non era più tornato, non aveva fatto niente. No, non il
mio pa’ che, poco prima di andarsene, aveva lasciato a sua moglie Serena, che
ormai disperava di averne, il figlio che era l’unica consolazione della sua
vita. Non lui.
E poi
Barbara Crane non aveva l’esclusiva dei capelli neri e degli occhi azzurri.
Mia madre ce
l’aveva con lei perché non era una donna perbene, perché poteva essere un
cattivo esempio per la comunità e perché poteva portare i giovani sulla cattiva
strada, tutto qui.
Ce l’aveva
anche con Irving Crane, è vero, ma solo perché lui aveva ereditato il grasso e
fertile terreno dei Willoughby, mentre lei, Serena, si rovinava gli occhi alla
Northern Maine Bank… e tutto solo perché, a Lonefrost, si pensava che ereditare
la terra fosse roba da uomini.
In ogni caso
non le avrei detto niente di quell’altra faccenda.
Avevo letto
abbastanza Sherlock Holmes per sapere che, quando hai scartato tutte le ipotesi
possibili, quella che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità, ma
avevo vissuto abbastanza per sapere che ci vuole una bella dose di presunzione
per sapere che cosa è possibile e che cosa no… e che gli adulti sono
presuntuosi.
Il fatto che
non avrei raccontato a mia madre era accaduto una settimana prima, quando noi
ragazzi (Connie non si era più fatta vedere e questo – avevo scoperto con
dolorosa consapevolezza – rendeva di colpo i nostri bagni nel Kenduskeag molto
meno interessanti) ci eravamo messi a giocare all’ombra della grande quercia.
Irving era
uscito vestito, al suo solito, con un cappello di paglia e un paio di pantaloni
bucherellati come se fossero stati usati per il tiro al bersaglio, reggendo una
tanica piuttosto pesante.
Aveva
aggirato il mucchio di rottami senza degnarlo di uno sguardo e aveva puntato
dritto verso lo steccato dove cresceva il cespuglio di girasoli.
Dovete
capire che, all’epoca, nessuno si sognava di parlare con le piante o altre
fesserie new age e, se mai lo avesse fatto, avrebbe detto qualcosa come “avanti
ragazze, vediamo di darci dentro e produrre di più”, perciò rimanemmo
letteralmente di stucco quando Irving si mise a parlare fitto fitto coi
girasoli.
Non potevamo
sentire che cosa dicesse, ma era chiaro che non erano inviti a produrre olio di
semi. E neppure paroline dolci, se è per
questo.
Ricordavano
piuttosto certi bisbigli irosi che salivano dalla cucina mentre io ero a letto
(o meglio, avrei dovuto esserlo) e mamma discuteva con qualcuno che la pregava
di non pignorarle la casa o la terra.
Dialoghi
tutti simili, come registrati. Mi dia un po’ di respiro, signora Willoughby,
non proceda col pignoramento – diceva l’altra voce – Non è possibile, spiacente
– diceva la voce di mia madre.
Ad ogni modo
Irving continuò a parlare con quei dannati fiori mentre un brivido che non era
solo di freddo ci congelava il sudore sulla schiena.
Un soffio di
vento s’insinuò tra i rottami cigolanti e gli steli ondeggianti e tutti noi –
e, credetemi, anche voi avreste avuto la stessa sensazione se foste stati là ed
aveste avuto dodici anni – avemmo la certezza che qualcosa aveva risposto.
Allora
Irving sollevò la tanica (e tutti noi vedemmo il teschio che sogghignava
sull’etichetta come un beffardo Jolly Roger) e rovesciò cinque litri di
diserbante alla base degli steli.
Udimmo il
liquido gorgogliare giulivo nel placido mattino d’estate, poi, quando anche
l’ultima goccia fu assorbita nel terreno, Irving si allontanò col passo rigido
di chi non osa voltarsi.
La settimana
successiva i girabuio crebbero più rigogliosi che mai.
Nessuno di
noi riferì ciò che avevamo visto e sentito – oppure avevamo solo creduto di
vedere e sentire e, in quel dubbio, stava racchiusa buona parte del nostro
processo di crescita.
Io, poi, non
avrei parlato mai più di Irving Crane a mia madre – come potevo sapere qualcosa
di Irving se non passando davanti a casa sua per andare a nuotare nel
Kenduskeag? – se non fosse stato per Connie Chambers e Tony Blaine.
Tony aveva
quattordici anni ma, essendo stato bocciato due volte, frequentava ancora le
scuole medie. Probabilmente le avrebbe frequentate anche l’anno successivo dato
che passava tutti i pomeriggi con Georgina Shuster sul sedile posteriore della
Pontiac abbandonata nel cortile di Irving.
Tony era un
brutto soggetto e qualunque ragazza si lasciasse palpeggiare da lui era una
poco di buono perché, come diceva mia madre, Dio li fa e poi li accoppia,
quindi la faccenda non m’interessava.
Cambiai idea
il giorno che lo vidi mano nella mano con Connie Chambers.
Se ne
stavano sulla panchina del parco (del parco pubblico, mio Dio, come se la
faccenda avesse ricevuto il tacito benestare della comunità) e, in un istante,
ebbi la dolorosa epifania del fatto che io volevo, dovevoessere al posto di
Tony Blaine.
Sì, io, Lew
Roberts, figlio di Serena Willoughby e Raymond T. Roberts, dovevo essere il
ragazzo di Connie, io, non Tony, che sbaciucchiava ragazze in una discarica.
Inforcai la
bicicletta e schizzai via, percorrendo tutta King Street e poi oltre, tra i
campi deserti nella calura estiva, e poi ancora avanti, sotto la volta fitta e
selvaggia delle prime propaggini del bosco.
Pensavo che
avrei corso per sempre (come, molti anni più tardi, avrebbe fatto Tom Hanks in
quel film), ma i miei polmoni non erano dello stesso parere e mi costrinsero a
fermarmi davanti alla casa di Irving.
Mi arrestai
ansante, lasciando che lungo la faccia mi scorressero torrenti di liquido
bruciante e salato, senza preoccuparmi se erano lacrime o sudore.
Nella mia
testa un solo pensiero continuava a girare come un criceto impazzito dentro ad
una ruota: io, io dovevo essere il ragazzo di Connie Chambers. Io, a qualunque
costo.
I fiori
oscillavano al ritmo di una brezza leggera, quasi danzando.
Ebbi la
visione di Tony e Connie (Connie, non Georgina) che, dopo essersi fumata l’erba
nascosta nel frigo, se la spassavano sul sedile posteriore della Pontiac.
I girabuio
parvero chinarsi su di me, frusciando. Avevano una storia da raccontare.
E io ascoltai.
«Ti avevo
detto di stare lontano da Irving Crane»
«Sì, ma’»
Mia madre
fissava il tavolo della cucina, una tazza di caffè nero in una mano e una
sigaretta nell’altra.
Il suo
sguardo era duro, rigido, pensoso. Dietro i suoi occhi castani (così diversi
dai miei e anche da quelli di mio padre, per quanto mi era dato sapere)
s’indovinavano pensieri guizzanti e letali come i lucci nelle anse del
Kenduskeag.
Mi vennero
in mente frammenti irosi di conversazione (Mi dia un po’ di respiro, signora
Willoughby, non proceda col pignoramento).
«Va’ in
camera tua e restaci per tutta la settimana».
«Sì, ma’».
Mentre
salivo le scale mi voltai più volte a guardarla, ma lei non si mosse mai.
Mia madre
avrebbe fatto qualunque cosa per il suo unico figlio, nato quando ormai tutti i
medici l’avevano definita sterile, ma forse c’erano alcune cose che era meglio
non facesse, forse…
Non è
possibile, spiacente.
Il Giudice
fu molto duro con Tony Blaine.
Laggiù,
all’ovest, potevano prendere certe faccende alla leggera, ma quassù, a
Lonefrost, non si scherzava. Comincia a tollerare la marijuana e, in men che
non si dica, ti troverai branchi di hippy a bivaccare nei boschi.
La difesa
obiettò che chiunque avrebbe potuto mettere un po’ d’erba in quello schifo di
discarica e l’accusa suggerì di sottoporre l’intera dannata casa di Irving a
un’accurata perquisizione.
Non venne
fuori nulla finché Nixon, il bracco dello sceriffo, non si mise a ringhiare e
scavare accanto al cespuglio di girasoli.
Rimasero
tutti sorpresi quando saltarono fuori le ossa di Barbara Crane con i segni di
un colpo d’accetta in piena fronte.
Più sotto
c’era il cadavere di Clay Kaminski, decoratore d’interni e questa fu un’altra
sorpresa.
Io però non
mi stupii per niente.
Non dopo
aver sentito i girabuio.
Irving Crane
non vide la fine del processo.
Lo trovarono
stecchito nel giardino, una mattina.
Dopo lo
scavo, alcuni girasoli erano ricresciuti e, a sentire qualcuno, Irving ne aveva
strappato uno e aveva usato il gambo per stangolarsi… la maggior parte però
diceva che non era possibile. Il gambo di un girasole si sarebbe spezzato, ed
era vero. Il gambo di un girasole si sarebbe certamente spezzato.
Lo stesso
anno Tony Blaine morì a New York durante un tentativo di rapina. Stavolta non
si stupì nessuno: tutti sapevano che Tony era un poco di buono.
L’anno
successivo la casa di Irving andò all’asta.
L’incanto
andò quasi deserto, forse perché anche a Lonefrost i tempi stavano cambiando e
qualcuno cominciava a pensare che pure le donne potessero possedere la terra.
Serena
Willoughby, il giorno del nostro matrimonio, intestò la proprietà della casa a
Connie e a me.
Fu il suo
regalo di nozze e che Dio vi benedica, ragazzi.
Col tempo,
la fatica e il denaro (la terra era davvero ricca e grassa) riparammo la casa,
la ammodernammo e la sistemammo.
I rottami
furono i primi a sparire, poi fu la volta dell’orto, anche se a Connie
dispiacque perché la verdura cresceva che era una meraviglia.
Lo steccato
fu sostituito da una siepe e, dopo qualche tempo, riuscii a convincermi che non
sarebbero più spuntati girasoli.
King Street
fu asfaltata e allargata ed anche il bosco si ritirò fino ad arretrare
sull’altra sponda del Kenduskeag.
Lonefrost si
era espansa, anche se non molto, e la vecchia casa dei Crane (ora la nuova casa
dei Roberts) non era più l’ultima abitazione del paese, quasi in mezzo alla
foresta.
Quando
costruirono il nuovo acquedotto comunale ne permettemmo il passaggio attraverso
la proprietà – non gratis, s’intende.
Il
Kenduskeag, soggetto a un intenso prelievo idrico, ridusse parecchio la sua
portata. Nelle estati più calde l’acqua arrivava a mezza coscia e farci il
bagno non era più divertente come una volta.
La vecchia
quercia si seccò e finì nel nostro camino, bruciando mentre tenevo Connie
abbracciata e nostra figlia Helen gattonava sul tappeto.
Dieci anni
fa mia madre cominciò a dar fuori di testa e, con qualche sforzo, riuscii a
convincere Connie a lasciare che Serena Willoughby trascorresse in famiglia gli
ultimi mesi che le rimanevano.
Li passò
quasi tutti seduta in poltrona, con lo sguardo perso nel vuoto, obbediente ed
inerte come l’altalena che avevamo piantato in mezzo al prato.
Ci dette
qualche problema solo l’ultima notte, quando iniziò ad urlare di far star zitti
i girasoli.
Feci finta
di niente e le tenni la mano mentre gridava che Barbara Crane era una strega,
arrivata in paese da chissà dove, giungendo dal sentiero che attraversava la
foresta.
Continuai a
stringerla anche quando mi raccontava che Barbara era capace di ammaliare gli
uomini, di far cagliare il latte con lo sguardo, di guarire il Fuoco di S.
Antonio, di praticare aborti e di far nascere bambini dalle donne sterili anche
se poi quei bambini erano in parte suoi e c’era un prezzo da pagare …
Andò avanti
così fino all’alba, quando morì mentre io guardavo il giardino, là dove mi era
sembrato di vedere un cespuglio che un attimo prima non c’era.
La seppellii
ed andai avanti, come sempre si fa in questi casi e come si fa per tutta la
vita.
Ho un nipote
di dodici anni adesso.
Si chiama
Bobby e, anche se non può andare a fare il bagno nel Kenduskeag, non ha una
quercia sotto la quale nascondersi né uno Strano Vecchio In Fondo Alla Strada,
sono i suoi dodici anni, il suo turno sulla ruota del karma che gira, il
talento regalatogli dall’Onnipotente il giorno della cresima.
Helen,
nostra figlia, lo manda ogni estate da noi per una settimana. Anche troppo
presto il ragazzo pretenderà di andare a spassarsela da qualche altra parte,
ma, per ora, Connie e io ci godiamo questi giorni e lo guardiamo scorrazzare
all’aperto, dimentico per qualche ora di videogame, social network ed altre
diavolerie moderne.
Credo che ci
sia un pizzico di miracoloso in tutto ciò e, chissà, forse un po’ della vecchia
magia è rimasta da queste parti, anche se non tutta la magia è bianca.
Adesso però
se ne sta sdraiato sul divano del salotto, gonfio da far paura, mentre Helen
sta giungendo in aereo da Boston.
Un calabrone
lo ha punto procurandogli uno shock anafilattico. Nessuno sapeva che fosse
allergico.
Il medico
dice di avere fatto tutto il possibile per salvare Bobby, ma non è detto che
quel tutto sia abbastanza, quindi adesso tocca a me.
So quello
che devo fare.
Me lo ha
detto mia madre, dieci anni fa, e su certe cose una madre non sbaglia.
Sa che una
donna, strega o no, non perdonerà mai chi le ha ucciso l’uomo che amava e che
una madre non rinuncerà mai al proprio figlio, il bambino che ha i suoi stessi
occhi e i suoi stessi capelli.
S’impara a
convivere col male così come s’impara a convivere con i capelli che cadono, la
barba che s’ingrigisce, le giunture che scricchiolano, la vista che si offusca,
i muscoli che diventano flaccidi.
Si tira
avanti e si cerca far finta di niente confidando che il prezzo da pagare, alla
fine, non sarà troppo alto o che qualcuno ci farà uno sconto.
Seppelliamo
certe azioni, laggiù, nel profondo, sperando di non veder germogliare, nel
nostro giardino, certi fiori di cui parlava Baudelaire ed ai quali io, povero
ragazzo di campagna, avevo dato un altro nome.
Fiori che
ora sono spuntati di nuovo, nello spazio di un mattino e che vanno nutriti col
sangue.
E, stanotte,
io darò loro il mio al posto di quello di Bobby.
È molto
tempo che me lo chiedono, apparendo nei miei sogni, affacciandosi dal lato
sbagliato del mondo e mostrandomi il loro vero aspetto.
Fiori con i
petali bianchi come ossa calcinate, i semi colore del sangue rappreso e il
gambo nero come il fondo di una tomba.
Girabuio.
Una girandola di nomi, di luoghi, di fatti.
RispondiEliminaUn'impresa non da poco leggere tutto d'un fiato una long story come questa.
Per di più ambientata le mille miglia dalle nostre plaghe, dalle modalità di convivenza così diverse.
Un salto mentale non indifferente per chi come noi risiede nella Vecchia Europa.
C'è da rimanere storditi su due piani.
Quello di un mondo < alieno> conosciuto per lo più solo attraverso scrittori autoctoni e la filmografia dedicata.
Poi quello dell'aggressione di una storia in piena corsa travolgente.
Rilevante la padronanza di una trama fittissima di particolari.
La forma < estetica > del racconto è moderna, spigliata, galoppante, senza pause sospensive, curatissima nella sintassi, controllata nel linguaggio dialogato, senza sbavature o licenze letterarie.
Una bella e forse complicata ricostruzione fissata con attenzione maniacale dei particolari, soprattutto ambientali.
E quindi anche una bella conoscenza topografica.
Che altro dire? Certo una personalità scrittoria completa, di cui è facile preconizzare successi di largo consenso.
Siddharta
P.S.: una sola curiosità, la religione come grande assente...
Innanzi tutto grazie di aver letto questo lungo.
EliminaIn realtà ho fatto qualche ricerchina sul costo del biglietto dei cinema negli anni in cui la storia è ambientata e sul periodo e sul luogo di maturazione dei girasoli in quelle terre - con la rete è facile - quanto a pignoramenti ed ipoteche, be', funziona così in mezzo mondo.
Poi ci sono particolari e tratti che sono (credo) comuni a tutto il mondo e questa è un po' l'altra faccia della medaglia e serve a far sì che il lettore senta un po' come sua la storia, che parla anche di cose che conosce e ha vissuto.
Sulla religione rispondo volentieri, ma, se non ti spiace, fra un po', perchè dovrei illustrare la trama, per rispondere, e non vorrei che qualcuno facesse il furbo e si leggesse la risposta e non il racconto (oppure si rovinasse la sorpresa).
Questo è uno dei miei racconti preferiti, sia per l'uso del non detto o dell'indiretto, sia per la costruzione e l'iconografia del fiore del male che risalta sullo sfondo per tutto il percorso dell'intreccio. Non ci sono parti lasciate al caso e la tridimensionalità della storia esce grazie alla sapiente sottotrama di intrecci di vissuto che, senza mai spiegare, danno una dimensione alle persone e una motivazione del loro agire.
RispondiEliminaMa lo sapevi già, già te lo dissi ;)
Il vantaggio di narrare in prima persona rende per certi versi più facile barare col lettore. Da un narratore terzo il lettore si aspetta imparzialità e completezza. Da un narratore in prima persona, be' si fida. Deve fidarsi, se no abbandona il libro. In narratore in prima persona, quindi, può barare tacendo o falsando particolari senza che il lettore se ne accorga - e anche se se ne accorge è facile che lo perdoni, se la storia è buona.
EliminaDopo questo viaggio oltre oceano, bello scoprire che anche dentro una Pontiac si scopa come ricci. Pensavo fosse una prerogativa nostrana.
RispondiEliminaUn racconto bello davvero, curato nei minimi particolari, come hanno fatto giustamente notare Claudia e Sidd.
Ti faccio i complimenti anche se mi resta una domanda in canna, se al posto del Kenduskeag ci fosse stato il Canale Villoresi o quello della Muzza, e se Irving si fosse chiamato Luigino, dici che la storia del girabuio non avrebbe avuto lo stesso effetto?
Un tempo i giallisti italiani assumevano nomi anglosassoni per essere più credibili e ambientavano le storie nel Bronx. Ma oggi, mi domando, ha ancora un senso questa operazione?
Non è una critica la mia, ma una semplice curiosità.
No, penso proprio di no e per due ragioni.
RispondiEliminaLa prima, puramente interna al racconto. Ci sono qua e là un po' di citazioni sparse, che non sono indispensabili affatto al racconto, ma, per chi le coglie, sono un "di più" che secondo me non guasta, anzi. "Irving Crane" deriva da "Washington Irving" + "Ichabod Crane" rispettivamente autore e protagonista di "La leggenda di Sleepy Hollow" (forse avrai visto il film di Burton con Depp) che è uno dei primi romanzi americani e che è anche una storia di streghe. E pure la mia è anche una storia di streghe. Castle Rock è l'immaginaria cittadina del Maine dove si svolgono molti romanzi di King, così come il Kenduskeag il fiume che scorre in molti romanzi di King (il fiume esiste veramente e si trova nella contea del Penobscot). E così via.
Secondo. Le storie di streghe sono favole. Le favole si svolgono "tanto tempo fa" e per buona parte del tempo il racconto è narrato da un punto di vista infantile e, da quel punto di vista (falsato, perchè chi racconta è un adulto, ma lì sta il trucco) gli anni '50/'60 e il Medioevo sono quasi la stessa cosa. Nota bene che, benchè il racconto si svolga negli anni '50/'60 (sono anche andato a controllare quanto potesse costare un biglietto del cinema in quel periodo), non preciso affatto l'epoca e questo per dare una maggiore senso di acronicità. Inoltre, e soprattutto, le favole si svolgono anche "in un paese lontano lontano" con molti tratti del mitico, del meraviglioso. E' un posto dove non siamo mai stati, ma che un po', più col cuore che con la mente, conosciamo. E' alieno, ma familiare in qualche modo. Da questo punto di vista, col suo impatto sul nostro immaginario, l'America è perfetta.
Terzo. L'opzione "soprannaturale" è proposta ma non imposta. Barbara Crane (che è all'origine di tutta la vicenda), proprio come il primo motore immobile non si vede e non compare (anzi, è già morta prima del racconto) e, soprattutto, potrebbe essere tanto una strega quanto una donna un po' chiacchierata e vittima di maldicenze. Non aveva senso, in quest'ottica, dare una connotazione ben precisa alla figura della "strega", magari dandole caratteri ben delineati. Se l'avessi ambientato da noi avrei dovuto collocarlo in un contesto socioculturale ben preciso e quindi sarei stato costretto a dire se si trattava di un essere con connotati della stria, oppure della stariona, oppure della strega di Benevento, oppure della basura. Diversamente, sarei stato superficiale e generico. Ma io dovevo rimanere sul vago perchè dovevo giocare sull'ambiguità della figura e sulla sua utilizzabilità da parte del lettore, in un senso o nell'altro. Anzi, in effetti la figura stregonesca è marginale rispetto al cuore del racconto - che è la nascita del male dal bene ed il ritorno ciclico del male (la ciclicità, ancora una volta, è tratto distintivo delle favole). Barbara può essere una strega o non esserlo, ma, se fosse stata italiana, avrebbe dovuto essere una strega italiana, con tratti ben delineati per non sembrare finta e quindi sarebbe diventata troppo importante.
Infine, non c'entra un bel niente, secondo me, il prima, il dopo, i giallisti di una volta o di adesso. E' la storia che comanda. Se si lascia che l'ambiente influisca e determini la storia (cioè se il procedimento creativo funziona così: siccome voglio parlare del posto X narro una storia che può svolgersi nel posto X) allora abbiamo un forte rischio di cadere nel provincialismo o nell'esterofilia che sono poi due facce della stessa medaglia.
Quindi, assolutamente no. Il protagonista non si poteva chiamare Luigino e il fiume non poteva essere il Villoresi, non perchè non siano posti dove le storie non si possano ambientare (esterofilia) ma perchè l'approccio favolistico lo impedisce.
Ehmmm.... tre ragioni...
EliminaSe ho ben capito è un po’ come per certe canzoni nate in inglese, che se le senti in italiano e non piacciono più, del resto i testi si possono anche tradurre ma è difficile riprodurre le stesse atmosfere eccetera. E anche in senso contrario l’operazione diventa difficile.
EliminaE un po’ anche perché tu prediligi la letteratura americana e trasferire le storie di quel particolare genere in Italia, questo sì ti sembrerebbe, un provincialismo.
In ogni caso è giusto che uno scrittore ambienti le proprie storie dove meglio crede, senza timore di essere tacciato di provincialismo. Se uno si documenta bene come fai tu, se uno conosce l’ambiente a sufficienza, lo può fare benissimo.
A tale proposito ricordo di un amico che aveva scritto un bel romanzo ambientato a Londra e dopo un consulto con l’editor era stato costretto a riportare la stessa storia in Italia. Per una serie di motivi che non ti sto ad elencare e che tu puoi ben immaginare. Non ultimo per la stessa ragione per cui i cantanti dei talent cantano di preferenza in inglese. E’ più facile. Meno riferimenti per il pubblico, meno confronti eccetera.
Be' non è solo un problema di "ispirazione" (immagino la storia in un certo posto). Non ci si deve fermare lì. E' un problema di "verifica sperimentale" (vedo se l'ispirazione consente di sviluppare una storia coerente). Salgari, per dirne una, non si è mai mosso dall'Italia, ma si è consumato gli occhi a furia di consultare enciclopedie per i suoi romanzi.
RispondiEliminaNon conosco quel romanzo londinese, ma magari - e sui romanzi, che contengono più dati dei racconti, è più facile che accada proprio questo - tu ambienti in un certo posto un romanzo e dici cose non vere, o contraddittorie. E questo un editore serio non dovrebbe consentirlo.
In effetti la collocazione ambientale mi sembra precisa: la provincia americana. Non so bene quali siano i paesi che si possano prendere ad emblema, però mi hai fatto ricordare le storie di Huckleberry Finn di Mark Twain.
RispondiEliminaC'è sempre un che di misterioso o favolistico in questi ambienti.
Per quanto attiene al racconto trovo molto appropriato il commento di Sid, che condivido.
Anche Twain va bene, anche se siamo a differenti latitudini. Il mio scopo era che il lettore dicesse "eppure mi sembra di essere già stato da queste parti...".
RispondiEliminaTi ringrazio.