
«Ma quello come si è conciato?
Mi sa che ha sbagliato festa» grida uno di loro. Aguzzo la vista e intravedo,
in fondo al viale, la sagoma di Arlecchino. È un attimo e subito scompare, il
costume che si confonde tra i colori frantumati dall'autunno.
Vorrei spiegare loro che
Arlecchino, in origine, era un demone ctonio il cui nome deriva, forse, da
Hölle König, “Re dell'Inferno”, e quindi è più adatto che mai ad Halloween ,
questa bizzarra festa di importazione, ma i tre mi sorpassano correndo.
Come ogni anno, percorreranno
tutta la strada, bussando a ogni porta e minacciando “dolcetto o scherzetto”
come impone la nuova, prepotente tradizione.
Terranno casa mia per ultima
perché è una villetta, non un condominio, e quindi si fa in fretta e si tira su
poco.
C'è un piccolo giardino che la
rende un po' più buia e isolata delle altre, perfetta per questa notte dell'anno.
Arrivo sulla soglia e attendo
un attimo, osservando un esile filo di fiato addensarsi sotto la luce
dell'ingresso.
È arrivato un po' di freddo,
finalmente, in questo mondo scombussolato in cui i tempi e i luoghi si
confondono; me lo godo per qualche istante, prima di entrare e di chiudermi la
porta alle spalle.
Mi aggiro per la casa senza
uno scopo perché, anche se dovrei mangiare qualcosa, non ho fame. Mi rendo
conto di non avere dolci: quando i tre bambini (o ciò che essi stasera sono: la
Strega, la Morte e il Diavolo) busseranno alla mia porta e chiederanno “dolcetto
o scherzetto” non avrò nulla da offrire.
Mi chiedo quale “scherzetto”
mi toccherebbe. Forse qualche mostriciattolo di plastica dentro alla cassetta
della posta, o una gomma da masticare sulla maniglia, o del liquido puzzolente
sullo zerbino. Oppure qualcosa di peggio: un vetro rotto, le gomme dell'auto
tagliate...
Mi arrovello sugli infiniti
tormenti che l'essere umano è in grado di escogitare a danno dei propri simili
e sul mito dell'innocenza infantile su cui la mia esperienza d’insegnante mi ha
ben presto disilluso.
Intanto, preparo i biscotti.
Mentre, seduto in cucina,
ascolto il timer del forno che ticchetta come una minuscola, giuliva bomba a
orologeria, il pensiero va all'Arlecchino che ho visto, o intravisto, lungo la
via.
Deve essere il solo vestito in
quel modo, stasera, e ciò me lo rende vicino, ma so che è solo un'illusione.
Due solitudini non si fanno compagnia, meno che mai se colui o colei che
potrebbe alleviarla non è che una sagoma variopinta intravista nella
semioscurità.
Il timer scatta e sembra
segnare la fine di qualcosa, anche se non saprei dire bene che
cosa.
La luce del forno si è spenta
e la casa è al buio.
Mi alzo e mi affaccio alla
finestra: c'è un po' di umidità e le gocce corrono sul vetro come dita che
cerchino di aggrapparsi. Il vento è caduto e, dal prato, sale un velo di
nebbia. Fluttua, mossa da qualche refolo ostinato, come il vestito di garza di
una ballerina invisibile. Non c'è nessuna luce, in giro, tranne il bagliore
rossastro di un braciere. Viene da un carretto di caldarroste e, se mi
concentro, mi pare di sentirne l'odore.
Fra un po', la Strega, la
Morte e il Diavolo finiranno il loro giro e verranno alla mia porta, così apro
la finestra e metto i biscotti sul davanzale perché si raffreddino.
Continuo a pensare ad
Arlecchino. Mi pare di avere letto che il suo vestito è fatto con brandelli
presi dai vestiti dei morti. Forse non è un caso che il suo volto sia nero,
l'assenza di ogni colore, e fisso, come quello di un cadavere.
Sento bussare, e sorrido
perché è proprio così che succede nei racconti dell'orrore: qualcuno racconta
una storia spaventosa e, proprio mentre la narra, accade qualcosa di
infinitamente peggio.
Dovrei uscire dalla cucina,
percorrere il corridoio e tornare all'ingresso, ma decido di non farlo. Non
subito, almeno.
Mi ricordo di tutte le storie
di fantasmi che ho sentito o letto, e mi viene in mente che la parola
“presenze”, con cui a volte li definiscono, è sbagliata. “Assenze”, dovrebbero
chiamarli, perché altro non sono che il vuoto che si apre nelle nostre vite.
Ne abbiamo tanto terrore, mi
dico mentre afferro il vassoio e chiudo la finestra, che lo riempiamo coi volti
più spaventosi che riusciamo a concepire, pur di non essere costretti a
guardarlo.
Maschere, penso percorrendo il
corridoio, e rifletto su quelle che portiamo così a lungo che, quando le
togliamo, è la nostra stessa faccia ad apparirci mostruosa.
Bussano ancora, e mi fermo: mi
viene in mente che dovrebbero farlo tre volte perché è così che accade nelle
storie di demoni e di spettri, dove tre è un numero magico, perfetto.
Penso a tutti coloro che sono
parte del mio passato e del cui passato io sono parte. Penso al tempo che è
passato e a come è passato. A come, ora, non siamo che reciproci ricordi, ancor
meno concreti di un brandello di stoffa con cui rappezzare un costume. Ancora
una volta, fantasmi.
Bussano per la terza volta e
mi dico che potrei attendere ancora qualche secondo, aprire la porta ed essere io a
fare ai tre (la Strega la Morte e il Diavolo) uno scherzetto.
Penso alla mia lezione di
stamattina e a come, parlando degli ultimi gironi dell'Inferno di Dante, quelli
dei traditori (traditori dei Parenti, traditori della Patria, traditori degli
Amici, traditori dei Benefattori) mi è venuto in mente che dovrebbe essercene
un quinto, quello dei Traditori di se stessi. Ho pensato che dovrebbe essere il
più profondo e peggiore di tutti, ma non ho detto niente.
Ascolto, tendendo l'orecchio
anche se la mia porta è blindata ed è impossibile sentire qualcosa al di là,
anche in una notte silenziosa come questa.
Penso alle scelte che ho fatto
e a quelle che non ho fatto, a tutti i me cui ho negato
esistenza e che forse avrebbero maggior diritto di vivere del me attuale,
che sta appoggiando la mano sulla maniglia, e che, magari, sarebbero persone
migliori.
Così costruiamo le nostre
vite: raccogliamo pezzi di noi stessi e ce li cuciamo addosso per essere
presentabili. Allegri protagonisti di qualche festa ridanciana invece che
demoni sotterranei.
L'idea mi è intollerabile e
spalanco la porta, ma non c'è nessuno, a parte il costume da Arlecchino
abbandonato sui gradini.
Mi chino e lo raccolgo,
chiedendomi se è lui lo scherzetto che mi è stato riservato per avere indugiato
troppo prima di aprire, oppure qualcos'altro, ma, dagli occhi vuoti della
maschera, nera sopra i mille colori dell'abito, non viene nessuna
risposta.
Ahhhh... ti sei tolto finalmente la maschera!?
RispondiEliminaGuarda che è una pia illusione, se ne toglie una per indossarne un'altra.
Un uomo senza è nudo, qualcosa addosso deve pur mettersi, per combattere le intemperie perlomeno.
Dopo avere pubblicato qui un po' di racconti scritti in terza persona, al passato remoto e con un uso marcato del dialogo, ne ho pubblicato uno scritto in prima persona (preferisco la terza, ma uso ogni tanto anche la prima) al presente (che non mi piace, infatti è un tempo che uso pochissimo) e con un uso marcato del monologo. Insomma ho solo cambiato la maschera, mica l'ho gettata.
EliminaHo risposto al protagonista del racconto, ben sapendo che questo non coincide quasi mai con l'autore del testo, anche se scritto in prima persona. :-)
Eliminaavevo capito :-) per la cronaca: avevo due versioni di questo testo, una più noir e questa, che ho pubblicato.
EliminaInteressante quesito quello che emerge dal racconto: noi siamo uno, nessuno, centomila, certo, a seconda delle visuali, ma anche guardando a noi, alla nostra essenza, come potremmo essere noi stessi se prima non capiamo chi siamo realmente?
RispondiEliminaOgni circostanza potrà dettarci atteggiamenti diversi a seconda di come ci siamo alzati quella mattina (indirizzando così la nostra vita in un senso o nell'altro); forse, solo registrando i nostri impulsi come casistica e valutandoli potremmo avvicinarci alla consapevolezza del nostro essere, per capire chi siamo realmente e indurci ad accettarci per quello che siamo.
"Il conosci te stesso" è un vecchio imperativo.
Matematicamente, basta fare la media... :-)
EliminaBravissimo Rubrus, è un racconto scritto davvero bene, con l'intonazione che più mi è cara, e con un dolore sottile che riproduce le cronicità della vita e che sa tanto di bilancio. Ha una compostezza rara, è bello e dolente. Complimenti.
RispondiEliminaFranco "Pale"
Ti ringrazio di aver parlato di tono "composto" perchè non amo le esagerazioni.
EliminaDi quanto mi piace il racconto gia' ti dissi.
RispondiEliminaUna nota di valore anche al periodo che chiude con il carretto delle caldarroste.
In una sola frase hai reso l'atmosfera non solo visivamente, ma anche con altri sensi.
E' stato un trucco che mi ha insegnato il mio prof di italiano del liceo: quando volete descrivere qualcosa, ricordate che avete cinque sensi a disposizione.
RispondiElimina< A nessuna risposta > di Rubrus:
RispondiEliminaLe elucubrazioni psicologiche fanno aggio sul tutto.
Forse la trama è una scusa per esternare il ribollire di pensieri scaturiti in meditazioni cogitabonde.
Un po’ originali e un po’ retaggio di letture passate, ma comunque le ragioni di sempre di un’umanità in cammino.
Ci ritroviamo, in lettura, tra due poli: quello del < non ci avevo mai pensato > e quello < ah, mi ci fa ricordare >…
Poi c’è la storia, ma quella ognuno se la rigira come gli pare.
Quella della narrativa, credo sia la seconda pelle di Rubrus.
Dove si confessa e si autoassolve, magari talora con formula dubitativa.
Ok., ottimo lavoro.
Siddharta
Grazie. Ho pubblicato adesso questo racconto perchè è un po' diverso, stilisticamente e soprattutto strutturalmente, dagli altri. In realtà anche questo era nato un po' come noir, ma poi ho preferito questa veste. O questa maschera.
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