La devota moglie si sciolse in lacrime,
sollevò il piccolo Rasmo dopo avergli pulito accuratamente naso e bocca, perché
il padre prima della partenza gli desse ancora qualche bacetto... «Addio, mio
caro Erasmo Spikher» disse la donna singhiozzando «ti terrò la casa in ordine,
pensa spesso a me, siimi fedele e non perdere il bel berretto da viaggio, se,
come spesso ti succede addormentandoti, sporgi il capo della carrozza.» Erasmo
Spikher promise.
Nella bella Firenze, Erasmo trovò alcuni
compaesani che se la spassavano con quell’ardore e con quel desiderio di vita
proprio dei giovani. Quel magnifico paese poi offriva in abbondanza tutti i
piaceri possibili. Egli seppe mostrarsi un buon compagno di festini e
divertimenti di ogni sorta, a cui il suo spirito particolarmente allegro e il
suo carattere che univa un certo buonsenso alla più pazza sfrenatezza sapevano
dare uno slancio tutto particolare. Così avvenne che quei giovani (Erasmo con i
suoi ventisette anni era certamente tale) prepararono una notte una bella festa
tra i boschetti illuminati di un magnifico giardino. Ognuno, eccettuato Erasmo,
aveva con sé una gentile donna. Gli uomini vestivano graziosamente con antichi
abiti tedeschi, le donne portavano vesti chiare dai colori variopinti, ognuna
diversa dall’altra, cosicché sembravano splendidi fiori graziosi semoventi.
Dopo che alcune accompagnandosi con il mormorio dei mandolini ebbero cantato
una canzone d’amore italiana, gli uomini, tra l’allegro tintinnare dei
bicchieri colmi di vino siracusano, intonarono un forte coro tedesco. Non è
forse l’Italia il paese dell’amore? La brezza notturna sussurrava come un
nostalgico sospiro; i dolci profumi degli aranci e dei gelsomini ondeggiavano
fra i cespugli come parole d’amore, mescolandosi nel gioco libero e scherzoso
che quelle belle donne avevano iniziato, attingendo a tutte quelle piccole,
graziose invenzioni che solo le donne italiane sanno trovare. Sempre più
animato e rumoroso si faceva il divertimento.
Federico, il più ardente di tutti, si alzò,
cinse con un braccio la sua donna e levando il bicchiere colmo di spumeggiante
vino siracusano esclamò: «Dove potremmo trovare la beatitudine celeste se non
presso di voi, o soavi e stupende donne italiane? Voi siete l’amore stesso. Ma
tu, Erasmo» continuò rivolgendosi a Spikher «sembra che tu non te ne accorga,
perché non solo contro tutte le disposizioni e le abitudini non hai invitato alla
nostra festa nessuna donna, ma te ne stai così preoccupato e concentrato in te
stesso che se non avessi bevuto e cantato anche tu, direi che sei diventato un
noioso malinconico».
«Devo confessarti» rispose Erasmo «che io in
questo modo non posso divertirmi. A casa c’è la mia cara e buona moglie che amo
profondamente e certo la tradirei se mi scegliessi una donna anche soltanto per
una sera. Con voi scapoli è tutt’altra cosa; ma io sono padre di famiglia.» I
giovani risero a più non posso perché Erasmo alla parola «padre dl famiglia»
cercava di assumere un’espressione seria, ottenendo invece un effetto assai
buffo. La donna di Federico si fece tradurre in italiano ciò che Erasmo aveva
detto in tedesco; si volse allora con uno sguardo severo verso Federico e
alzando un dito disse in segno di lieve minaccia: «Tu, gelido tedesco che sei,
bada bene! Non hai ancora visto Giulietta».
In
quell’istante all’ingresso del boschetto si udì un fruscio e alla luce delle
candele dalla notte profonda emerse una donna meravigliosa. La bianca veste che
le copriva soltanto a metà il seno, le spalle e il collo con le maniche a
sbuffo sino ai gomiti, le ricadeva giù in ampie pieghe; i capelli divisi sulla
fronte erano uniti dietro in un nodo di trecce. Catenine d’oro al collo, ricchi
braccialetti attorno ai polsi completavano l’abbigliamento all’antica della
giovane donna che sembrava un personaggio di Rubens o del delicato Mieris.
«Giulietta!»
esclamarono le fanciulle estatiche. Giulietta, che nella sua bellezza angelica
superava tutte, disse con voce melodiosa: «Lasciatemi prendere dunque parte
alla vostra bella festa, giovani tedeschi. Voglio mettermi vicino a quello
laggiù che tra di voi sembra l’unico senza gioia e senza amore». E si diresse
con tutta la sua grazia verso Erasmo; si accomodò sulla sedia rimasta vuota
accanto a lui giacché non si era portato alcuna dama. Le fanciulle parlottavano
fra loro: «Guardate come è bella Giulietta anche oggi!». E i giovani dicevano:
«Guarda un po’ che cosa ci ha combinato Erasmo, si è scelta la più bella e ci
ha preso per il naso».
Il
primo sguardo rivolto a Giulietta aveva scosso Erasmo fin nel profondo. Come
essa gli si avvicinò, lo afferrò una forza strana opprimendogli il petto al
punto di fargli mancare il fiato. Gli occhi fissi su Giulietta, le labbra
rigide stava immobile e muto, mentre i giovani a voce alta facevano i loro
apprezzamenti sulla grazia e la bellezza di Giulietta. Costei prese un coppa
colma, si alzò e la porse gentilmente a Erasmo, il quale la prese toccando
lievemente le delicate dita di lei. Egli bevve e un torrente di fuoco gli
percorse le vene. Allora Giulietta chiese scherzosa: «Devo essere io la vostra
donna?».
Ma
Erasmo come impazzito le si gettò ai piedi, strinse le mani di lei al proprio
petto ed esclamò: «Sì, sì, tu lo sei, te, te, io ho sempre amato, o angelo del
cielo! Te ho sempre visto nei miei sogni. Tu mia felicità, anima mia, mia
sublime esistenza». Tutti credettero che il vino gli fosse andato alla testa,
perché mai l’avevano visto così: sembrava un altro. «Sì, tu, tu sei la mia
vita, tu ardi in me e mi divori con il tuo fuoco: lasciami morire... solo in
te, solo te voglio essere.» Così gridava Erasmo mentre Giulietta lo abbracciava
teneramente, poi, calmatosi, sedette al suo fianco e la compagnia riprese, con
giochi e canti, le schermaglie amorose che Giulietta ed Erasmo avevano
interrotto. Quando Giulietta cantava sembrava che dal profondo del suo petto
uscissero suoni celestiali suscitando in tutti un piacere fino allora soltanto
immaginato. La sua meravigliosa voce cristallina aveva in sé un ardore
misterioso che imprigionava l’animo di ognuno. Ogni giovane allora stringeva a
sé più forte la propria donna e gli occhi si scambiavano lampi ardenti.
Già un roseo chiarore annunciava l’inizio
dell’alba allorché Giulietta propose di porre fine alla festa. E così fu fatto.
Erasmo voleva accompagnare Giulietta, ma ella rifiutò ed indicò la casa dove
avrebbe potuto trovarla. Mentre i giovani intonavano un canto a conclusione
della festa, Giulietta scomparve dal boschetto. Qualcuno vide che si
allontanava lungo un viale, preceduta da due valletti che reggevano le
fiaccole. Erasmo non osò seguirla. I giovani pertanto presero a braccetto
ciascuno la propria donna e si allontanarono tutti allegri.
Profondamente
turbato e in preda alle pene d’amore, alla fine Erasmo li seguì, preceduto dal
suo servitorello che gli faceva luce.
Lasciati gli amici camminava per una strada
fuori mano che conduceva alla sua abitazione. L’aurora aveva ormai rischiarato
il cielo, il servitore spense la fiaccola contro il selciato, quando tra le
scintille sfavillanti sorse improvvisamente davanti a Erasmo una strana figura,
un uomo lungo e magro con un naso da falco, gli occhi scintillanti, la bocca
ironicamente atteggiata a scherno, vestito di una giubba rosso fuoco con
lucenti bottoni d’acciaio. Questi rise e disse con voce stridula e sgradevole:
«Oh, oh, voi siete certo uscito da un vecchio libro illustrato con questo
vostro mantello, il farsetto con lo spacco e questo berretto piumato! Siete
veramente buffo, signor Erasmo, volete proprio diventare lo zimbello della
gente che passa per la strada? Rientrate, dunque, buono buono nel vostro volume
di pergamena».
«Che
vi importa del mio modo di vestire?» disse Erasmo seccato, e spingendo da una
parte l’importuno fece per proseguire sulla sua strada, ma quello gli gridò
dietro: «Su, su, non affrettatevi così, tanto non potete andare subito da
Giulietta». Erasmo si voltò di scatto: «Che cosa avete da dire di Giulietta?»
disse con voce rabbiosa, afferrando per il petto l’uomo vestito di rosso.
Questi però si voltò più rapido di una freccia e prima che Erasmo se ne
accorgesse scomparve. Erasmo rimase sbalordito con in mano un bottone d’acciaio
che aveva strappato all’uomo in rosso.
«Era
quel ciarlatano del dottor Dappertutto, che cosa voleva da voi?» chiese il
servitore mentre Erasmo, preso da una strana paura, si affrettava verso casa.
Giulietta accolse Erasmo con quella
straordinaria grazia e gentilezza che le erano proprie. Alla folle passione di
Erasmo oppose un atteggiamento calmo e sereno. Solo di tanto in tanto i suoi
occhi lampeggiavano vividi, ed Erasmo, incontrando uno di quegli strani
sguardi, si sentiva scosso da un leggero tremito. Mai gli diceva di amarlo, ma
tutto quanto il suo comportamento glielo faceva capire chiaramente e così
avvenne che egli si sentì avvinto a lei da legami sempre più forti. Gli si
dischiuse una vita di sogno; vedeva ormai raramente gli amici, perché Giulietta
lo aveva introdotto in un’altra compagnia.
Una volta incontrò Federico, che lo fermò, e
poiché Erasmo si era commosso ai vari ricordi della sua patria e della sua
casa, gli disse: «Lo sai, Spikher, di essere entrato in una cerchia di persone
molto pericolose? Avrai certo notato che la bella Giulietta è una delle più
furbe cortigiane che mai si conoscano. Di lei si raccontano molte strane e
misteriose storie che la mostrano sotto una luce assai singolare. Che
Giulietta, se vuole, sappia esercitare sugli uomini un influsso irresistibile e
che riesca a legarseli con vincoli indissolubili, lo vedo da ciò che è avvenuto
di te: sei completamente cambiato; irretito dalle seduzioni di Giulietta, non
pensi più alla tua cara e devota moglie».
Erasmo
portò le mani al viso e piangendo invocò il nome di sua moglie. Ben si accorse
Federico del conflitto in cui si dibatteva Erasmo.
«Spikher» disse «partiamo subito.»
«Sì, Federico» disse Erasmo con forza «hai
ragione, non so come, ma mi prendono all’improvviso certi terribili
presentimenti!... Io devo assolutamente partire, oggi stesso.»
I due amici si affrettarono, ma in quel
momento il signor Dappertutto attraversò loro la strada e ridendo in faccia a
Erasmo esclamò: «Suvvia, affrettatevi, correte! Giulietta vi aspetta con il
cuore pieno di nostalgia e il viso in lacrime... Su, presto, affrettatevi».
Erasmo fu colpito come dalla folgore. «Questo
individuo» disse Federico «questo ciarlatano, mi sta veramente sullo stomaco;
va e viene da Giulietta e le vende le sue essenze miracolose.»
«Cosa?» fece Erasmo «questo stomachevole
individuo da Giulietta... da Giulietta...?»
«Perché ci mettete tanto tempo? Tutti vi
aspettano. Non avete dunque pensato a me?» così si espresse una dolce voce da
un balcone.
Era Giulietta: senza accorgersene, i due amici
si erano fermati proprio davanti a casa sua. Con un balzo Erasmo fu dentro.
«Non c’è più nulla da fare ormai: è perduto» disse Federico sottovoce e si
allontanò per la sua strada.
Giulietta non era mai stata così deliziosa:
portava lo stesso abito che aveva quella sera nel giardino, ed era raggiante in
tutto lo splendore e la grazia della giovinezza. Erasmo aveva ormai dimenticato
tutto quello che aveva detto a Federico e più che mai si sentiva trasportato
dalla voluttà in uno stato di estasi suprema. Giulietta stessa del resto non gli
aveva mai mostrato così senza alcun riserbo come allora la profondità dei suoi
sentimenti. Sembrava che guardasse solo lui, che esistesse solo per lui.
In una villa, che Giulietta aveva affittato
per l’estate, si doveva dare una festa. E tutti vi si recarono. Tra gli
invitati c’era un giovane italiano d’aspetto molto brutto e peggio ancora di
modi. Costui incominciò a corteggiare intensamente Giulietta suscitando la
gelosia di Erasmo, che, corrucciato, si allontanò dagli altri in un viale
laterale del giardino. Giulietta lo cercò e gli disse: «Che cosa ti succede?
Non sei forse tutto mio?». E abbracciandolo teneramente lo baciò sulle labbra.
Lingue di fuoco guizzarono attraverso il suo
corpo e nell’esaltazione amorosa strinse Giulietta a sé dicendo: «No, io non ti
lascio, dovessi morire nella rovina e nella vergogna». A queste parole
Giulietta ebbe uno strano sorriso e gli scoccò uno di quegli sguardi che lo
facevano rabbrividire.
Ritornarono tra gli altri. L’antipatico
giovane italiano fece ora la parte di Erasmo: spinto dalla gelosia lanciava
frasi pungenti e offensive contro i tedeschi e in particolare contro Spikher. A
un certo momento questi non ne poté più e decisamente si mosse contro
l’italiano: «Basta» disse «con la vostra sprezzante ironia contro i tedeschi e
contro di me altrimenti vi buttò in quello stagno dove potreste cimentarvi nel
nuoto».
In quel momento un coltello balenò nelle mani
dell’italiano; furibondo allora Erasmo lo afferrò per la gola e lo buttò a
terra dandogli un calcio alla nuca. L’italiano, rantolando, spirò.
Tutti si scagliarono su Erasmo, che non
riusciva più a dominarsi... si sentì afferrare e trascinare via. Quando si
riebbe, come da un profondo stordimento si trovò in un piccolo salottino ai
piedi di Giulietta che lo teneva fra le braccia, la testa china su di lui.
«Cattivo, cattivo tedesco» diceva essa con dolcezza infinita «che paura mi hai
fatto. Ti ho salvato da un pericolo immediato, ma tu ora non sei più sicuro in
Firenze e neppure in Italia. Devi andare via, devi lasciare colei che ti ama
tanto.»
Il
pensiero della separazione straziò Erasmo con un dolore senza nome.
«Fammi rimanere» gridò. «Piuttosto è meglio
morire; vivere senza di te non significa morire?»
Gli sembrò allora che una voce lontana e
sommessa lo chiamasse dolorosamente per nome. Era la voce della devota moglie.
Erasmo ammutolì e Giulietta in uno strano modo gli chiese: «Pensi forse a tua
moglie? Ah, Erasmo, tu mi dimenticherai subito».
«Possa io essere tuo per sempre, per sempre!»
disse Erasmo.
Essi stavano proprio di fronte a un grande
specchio molto bello. Stava appeso alla parete del salottino e ai due lati
ardevano chiare candele. Giulietta più forte, con maggiore tenerezza, strinse
Erasmo a sé, mentre dolcemente sussurrava: «Lasciami la tua immagine riflessa,
amore mio, essa deve stare sempre con me, mia deve essere».
«Giulietta» disse Erasmo meravigliato «che
cosa vuoi dire? La mia immagine riflessa?» E guardò nello specchio che
rifletteva lui e Giulietta uniti in un dolce abbraccio d’amore.
«Come puoi trattenere la mia immagine»
continuò «se essa dovunque viene con me e da ogni chiara acqua, da ogni
superficie tersa, mi viene incontro?»
«Tu» disse Giulietta «tu che volevi essere
mio, anima e corpo, non vuoi neppure concedermi questo sogno del tuo io che
balena dallo specchio? Presso di me non dovrà rimanere neppure la tua fugace
immagine ad accompagnarmi attraverso la misera vita che, quando te ne sarai
fuggito, rimarrà senza gioia e senza amore?»
Calde lacrime spuntarono dai begli occhi scuri
di Giulietta. Allora Erasmo, folle di amore e di dolore mortale, disse: «Devo
proprio andarmene da te? Certo lo devo, ma allora la mia immagine riflessa
appartenga per sempre a te. Nessuna forza, neppure il diavolo potrà
strappartela fino a che tu avrai me anima e corpo».
Dopo che così ebbe parlato, i baci di
Giulietta sulla sua bocca bruciavano come fuoco sino a che essa si staccò da
lui e protese avidamente le braccia verso lo specchio. Erasmo vide la propria
immagine, indipendentemente dai propri movimenti, uscire dallo specchio e
passare nelle braccia di Giulietta, e scomparire poi in una strana foschia.
Voci orribili incominciarono a belare e a ridere diabolicamente; in preda a un
terrore mortale, Erasmo cadde inanimato; ma l’angoscia stessa e l’orrore lo
strapparono al suo stordimento, e come immerso nelle tenebre arrivò barcollando
fino alla porta e scese le scale.
Davanti alla casa qualcuno lo afferrò, lo
trascinò nella carrozza che si allontanò velocemente.
«A quanto sembra siete un po’ cambiato» disse
in tedesco un uomo che gli si era seduto vicino. «Siete un po’ cambiato, ma ora
tutto andrà per il giusto verso se vi affiderete completamente a me. La piccola
Giulia mi ha già fatto le sue raccomandazioni. Voi certo siete un giovane molto
caro e siete straordinariamente incline ai divertimenti garbati proprio come
piacciono a noi due, a me e a Giulietta. Quel calcio alla nuca è stato un vero
calcio alla tedesca. Come sporgeva la lingua paonazza di quell’innamorato!...
Era veramente buffo a vedersi, e come gracchiava e miagolava prima di
schiattare... Ah, ah, ah...»
La voce di quell’uomo suonava così sarcastica,
il suo ciarlare era così odioso che quelle parole entrarono nel petto di Erasmo
come pugnalate.
«Chiunque voi siate» disse Erasmo «tacete,
tacete, non parlate di quel delitto di cui mi pento!»
«Pentirsi, pentirsi!» rispose l’uomo. «Allora
vi pentite anche di avere conosciuto Giulietta e di averne conquistato il dolce
amore?»
«Ah, Giulietta, Giulietta» sospirò Erasmo.
«Già» continuò l’uomo «siete veramente un
bambino. Voi desiderate e volete, ma tutto deve andare nel migliore dei modi. È
spiacevole certo che voi abbiate dovuto abbandonare Giulietta, ma se voleste
rimanere qui io potrei senza dubbio sottrarvi a tutti i pugnali dei vostri
persecutori e anche alla cara giustizia.»
Il pensiero di restare presso Giulietta
conquistò subito Erasmo. «Come sarebbe possibile?» chiese.
«Conosco un mezzo simpatetico» continuò l’uomo
«che può colpire con la cecità i vostri persecutori; insomma un mezzo che
agisce in modo che voi appariate sempre con un nuovo viso, così che essi non vi
riconoscano. Appena sarà giorno abbiate la compiacenza di guardarvi in uno
specchio a lungo e attentamente; io poi, senza portarvi alcun danno, con la
vostra immagine riflessa combinerò certe operazioni e voi sarete sicuro e
potrete vivere senza pericolo con Giulietta In piena felicità.»
«È spaventoso, spaventoso» gridò Erasmo.
«Che cosa c’è di spaventoso, caro amico?»
chiese sarcastico l’uomo.
«Ah, io ho... io... ho» incominciò Erasmo.
«... Lasciata la vostra immagine riflessa» lo interruppe subito l’uomo «presso
Giulietta... Ah, ah, ah! Benissimo, mio caro! Ora potete correre per i campi e
per i boschi, per le città e per i villaggi sino a che avrete ritrovato vostra
moglie insieme al piccolo Rasmo e sarete di nuovo un padre di famiglia, ma
senza immagine riflessa: al che vostra moglie certo non farà caso poiché vi
avrà in carne e ossa mentre Giulietta possiederà per sempre l’immagine
impalpabile del vostro io.»
«Taci, uomo spaventoso» gridò Erasmo.
In quel mentre si avvicinava un’allegra
brigata di gente che cantava; la luce delle fiaccole illuminò l’interno della
carrozza. Erasmo poté vedere in viso il compagno e riconobbe in lui l’odioso
dottor Dappertutto. Con un salto balzò fuori dalla carrozza e corse verso la
brigata perché da lontano aveva riconosciuto la potente voce di basso di
Federico. Erano gli amici che ritornavano da una cena in campagna. In gran
fretta Erasmo informò Federico di tutto quanto era successo, ma tacque la
perdita della propria immagine. Si affrettarono insieme verso la città e tutto
fu preparato in così breve tempo che all’alba Erasmo, su un veloce cavallo, era
già lontano da Firenze.
Spikher riferì poi alcuni episodi accaduti
durante il viaggio. Il più importante fu quello che gli fece sentire per la
prima volta la perdita della sua immagine riflessa. Per far riposare il cavallo
si era fermato in una grande città e tranquillamente si era seduto alla tavola
affollata di una locanda, non facendo caso al fatto che proprio di fronte a
lui, sulla parete, stava appeso un bellissimo specchio. Un disgraziato di
cameriere che stava dietro la sua sedia si accorse che nello specchio la sedia
rimaneva vuota e che nulla della persona seduta vi appariva. Richiamò
l’attenzione del vicino di Erasmo, questi a sua volta del proprio vicino, e
lungo tutta la tavolata si diffuse un mormorio, un bisbiglio, mentre tutti
guardavano prima Erasmo e poi lo specchio. Erasmo non si era ancora accorto che
si parlava di lui, quando un tipo molto serio si alzò dalla tavola e lo portò
davanti allo specchio, vi guardò e rivolto ai commensali esclamò: «Non c’è
dubbio: non possiede l’immagine riflessa».
«Non ha immagine riflessa, non ha immagine
riflessa!» tutti si misero a gridare. «Un mauvais sujet, un homo nefas ,
buttatelo fuori dalla porta.»
Furibondo
e pieno di vergogna Erasmo corse nella sua camera; ma era appena arrivato
quando la polizia gli fece sapere che entro un’ora o si presentava alle
autorità nella sua completa e perfettamente somigliante immagine riflessa,
oppure doveva abbandonare la città. Egli fuggì inseguito dalla plebaglia oziosa
e dalla ragazzaglia che gli gridava dietro: «Ecco che scappa quello che ha
venduto la sua immagine riflessa al diavolo, eccolo che scappa!».
Finalmente
si trovò in aperta campagna. Da quel momento, in qualunque posto andasse, con
il pretesto di un innato orrore per le immagini riflesse egli faceva coprire
gli specchi. Così venne soprannominato «il generale Suvarov», che aveva questa
stessa fissazione.
Raggiunta la sua città natale e la sua casa,
fu accolto con gioia dalla cara moglie e dal piccolo Rasmo. Ben presto nella
tranquillità e nel conforto delle mura domestiche si sentì compensato della
perdita dell’immagine riflessa. Un giorno Spikher, che aveva completamente
dimenticato la bella Giulietta, giocava con il piccolo Rasmo questi aveva le
mani sporche di caligine e le passò sul viso del padre: «Ah, papà, papà, come
ti ho sporcato la faccia di nero! Guarda qui». Così dicendo, il piccolo, prima
che Spikher potesse impedirglielo, prese uno specchio, lo pose davanti al padre
e vi guardò dentro. Ma subito piangendo lasciò cadere lo specchio e corse fuori
dalla stanza. Poco dopo entrò la moglie, lo stupore e lo spavento dipinti sul
viso. «Che cosa mi ha raccontato Rasmo?» domandò.
«Che
io non avrei l’immagine riflessa, non è vero, cara?» disse Spikher con un
sorriso forzato e cercò di dimostrare che era da pazzi credere che si potesse
perdere la propria immagine riflessa e che in ogni caso non sarebbe stata una
grande perdita giacché ogni immagine riflessa è solo una illusione, induce alla
vanità e costringe l’individuo a dividersi tra realtà e sogno.
Mentre
così parlava la moglie aveva tolto rapidamente il panno che copriva lo specchio
del soggiorno. Vi guardò dentro e come colpita dal fulmine cadde a terra.
Spikher la sollevò, ma appena quella tornò in sé lo allontanò con orrore
esclamando: «Lasciami, lasciami, uomo spaventoso. Tu non sei, no, non sei mio
marito... sei uno spirito infernale tu, che vuole dannarmi, vuole perdermi.
Vattene, lasciami, non hai nessun potere su di me, maledetto».
Le sue grida risuonarono per le stanze; la
gente di casa accorse ed Erasmo si precipitò fuori di casa disperato e
imbestialito. Come impazzito si aggirava per i solitari viali del parco nei
pressi della città. Improvvisamente la figura di Giulietta sorse davanti a lui
in tutta la sua angelica bellezza, ed egli gridò: «Così ti vendichi, Giulietta,
perché ti ho abbandonato e perché invece del mio vero Io ti ho dato soltanto la
mia immagine? Oh, Giulietta, voglio essere tuo, corpo e anima... lei a cui ti
ho sacrificato, lei mi ha scacciato. Giulietta, Giulietta, voglio essere tuo
con il corpo, con l’anima, con tutta la vita».
«Lei può senz’altro esserlo, mio caro» disse
il signor Dappertutto che all’improvviso apparve vicino a lui nella sua giacca
scarlatta con i lucenti bottoni d’acciaio. Per l’infelice Erasmo quelle parole
erano una vera consolazione, per cui non fece neppure caso al viso odioso e
malvagio di Dappertutto. Si fermò e chiese in tono lamentoso: «Come potrò
ritrovarla se per me è per sempre perduta?».
«Affatto» rispose Dappertutto. «Giulietta non
è lontana da qui e ha un gran desiderio della sua preziosa persona, signore,
perché, in fin dei conti, un’immagine rispecchiata non è che una semplice
illusione. Del resto appena Giulietta possiederà con sicurezza la sua preziosa
persona in corpo e anima, le restituirà illesa la sua cara immagine riflessa.»
«Portami
da lei, portami da lei» disse Erasmo. «Dov’è?»
«Bisogna
prima fare ancora qualcosa, una inezia» disse Dappertutto «prima che possa
vedere Giulietta e darsi tutto a lei in cambio della restituzione
dell’immagine. Lei, caro signore, non può disporre completamente della sua
preziosa persona perché è ancora legata con certi vincoli che devono essere
anzitutto sciolti: la sua cara moglie con il figlioletto che promette tanto...»
«Che c’entra questo?» scattò a dire Erasmo.
«Un eccezionale scioglimento di questi legami»
continuò Dappertutto «lo si può ottenere in un modo molto semplice. Lei sa già,
sin dall’epoca di Firenze, che io sono abilissimo nel preparare medicine
portentose: ora avrei sottomano un piccolo rimedio familiare. Bastano poche
gocce per coloro che ostacolano lei e Giulietta ed essi senza neppure
accorgersene cadranno inanimati. Questo lo si chiama morire, e la morte è certo
una cosa amara; ma non è forse piacevole il sapore delle mandorle amare? E la
morte racchiusa in questa fiala possiede solo questa amarezza. Non appena la
cara famiglia sarà serenamente trapassata, un piacevole odore di mandorle amare
si diffonderà dovunque... Prenda, prenda, signore!» e allungò a Erasmo una
piccola fiala.
«Uomo
spaventoso!» gridò questi «dovrei avvelenare mia moglie e mio figlio?»
«E chi parla di veleno?» l’interruppe l’uomo
vestito di rosso. «Nella fiala è contenuto soltanto un rimedio familiare di
gusto gradevole; avrei a disposizione altri rimedi che potrebbero procurarle la
libertà, ma io vorrei agire completamente attraverso di lei, così, in modo
molto semplice: questa è una mia mania. Prenda, mio caro, con assoluta
tranquillità!»
Senza accorgersi Erasmo si trovò la fiala in
mano. E come un incosciente corse a casa nella sua camera. Sua moglie aveva
passato tutta la notte in mille angustie e tormenti e continuava a dire che
colui che era ritornato non era suo marito, bensì uno spirito infernale che
aveva preso la forma di suo marito. Come Spikher fu di nuovo in casa, tutti
fuggirono atterriti; solo il piccolo Rasmo osò avvicinarlo e chiedergli
ingenuamente perché non aveva portato con sé la propria immagine riflessa e
disse che la mamma ne sarebbe morta di dolore. Erasmo fissò il piccolo
selvaggiamente, aveva ancora la fiala di Dappertutto in mano. Il piccolo
portava sul braccio la sua colomba preferita e così avvenne che l’animale
avvicinandosi alla fiala ne beccasse il tappo; subito lasciò cadere il capino:
era morto.
Atterrito
Erasmo urlò: «Traditore, tu non mi persuaderai mai a tale diabolica azione».
Buttò la fiala dalla finestra aperta, così che
andò in mille schegge sul lastrico del cortile. Si diffuse su fino alle stanze
un grato odore di mandorle amare. Il piccolo Rasmo era fuggito spaventato.
Spikher passò tutto il giorno in mille tormenti finché sopraggiunse la notte.
L’immagine di Giulietta nel suo cuore si faceva sempre più viva. Una volta in
presenza di lui le si era rotta una collana di quelle piccole bacche rosse che
le donne portano come perle. Nel raccoglierla, egli ne aveva nascosta una
perché era stata a contatto con il collo di Giulietta e l’aveva fedelmente
conservata. Ora la trasse fuori e guardandola fissamente rivolse i suoi
pensieri e la sua anima all’amante perduta. Sembrava che dalla perla si
diffondesse un profumo magico, quel magico profumo che lo avvolgeva quando era
vicino a Giulietta.
«Oh,
Giulietta, vederti ancora una volta e poi scomparire nella rovina e nella
vergogna.»
Non aveva ancora pronunciato queste parole
che, sul corridoio, proprio davanti alla porta si udì un fruscio e uno
stropiccio. Egli sentì un rumore di passi... qualcuno bussò alla porta. La
speranza e l’angoscia gli mozzarono il fiato. Giulietta entrò tutta radiosa.
Pazzo di amore e di desiderio la serrò fra le braccia.
«Ora
sono qui, mio adorato» disse lei dolcemente a bassa voce «guarda come ho
conservato fedelmente la tua immagine!»
E,
tolto il panno dallo specchio, Erasmo poté vedere incantato la propria immagine
accanto a quella di Giulietta; ma, indipendente da lui, essa non rispecchiava i
suoi movimenti. Erasmo fu preso dal terrore: «Giulietta» disse «devo proprio
impazzire per amor tuo? Dammi l’immagine riflessa e prendimi tutto, vita,
corpo, anima».
«C’è ancora qualcosa tra noi, caro Erasmo»
disse Giulietta «tu lo sai: non te l’ha detto forse Dappertutto?»
«In
nome di Dio, Giulietta» interruppe Erasmo «se soltanto a questo patto posso
diventare tuo, preferisco morire.»
«Certo»
disse Giulietta «Dappertutto non può spingerti in nessun modo a questa azione.
Però è brutto che un voto e la benedizione di un prete abbiano tanta forza, ma
tu devi sciogliere il legame che ti avvince, altrimenti non potrai mai essere
completamente mio e per questo c’è un rimedio migliore anche di quello che
Dappertutto ha proposto.»
«Quale è?» chiese subito Erasmo. Giulietta gli
mise un braccio attorno al collo e appoggiando il suo capo al petto di lui
sussurrò lentamente: «Tu scrivi su un piccolo foglio di carta il tuo nome,
Erasmo Spikher, sotto queste poche parole: io do al mio buon amico Dappertutto
ogni potere su mia moglie e su mio figlio perché ne faccia quel che vuole, e
sciolga il legame che mi avvince, perché d’ora innanzi voglio appartenere con
la mia carne e con la mia anima immortale a Giulietta che eleggo a mia compagna
e che lego a me con un voto particolare per l’eternità».
Tutti i nervi di Erasmo vibrarono
violentemente. Baci di fuoco bruciarono le sue labbra, egli aveva il foglietto
che Giulietta gli aveva dato. Improvvisamente dietro Giulietta sorse gigantesco
Dappertutto che gli allungò una penna di metallo. In quell’attimo sulla mano
sinistra di Erasmo si ruppe una piccola vena e ne sprizzò del sangue.
«Intingi, intingi... scrivi, scrivi!» gracchiò
il rosso individuo.
«Scrivi,
scrivi, mio per sempre, mio unico amore!» sussurrava Giulietta.
Già egli aveva intinto la penna nel sangue, e
stava per firmare, quando la porta si aprì ed entrò una bianca figura che
fissando Erasmo con occhi spettrali disse con cupo dolore: «Erasmo, Erasmo, che
cosa fai? In nome del Redentore, non commettere questa spaventosa azione!».
Erasmo, riconoscendo sua moglie in quella
figura ammonitrice, buttò carta e penna lontano da sé. Lampi ardenti
sprizzarono dagli occhi di Giulietta, odiosamente contratto era il suo viso,
tutto il suo corpo pareva ardesse.
«Vattene,
rifiuto infernale, nulla devi avere della mia anima. In nome del Redentore,
togliti di mezzo, serpente... l’inferno ribolle in te!» gridò Erasmo e respinse
violentemente Giulietta che ancora lo teneva abbracciato.
Si
udì allora un urlio assordante e un agitarsi di nere ali di corvo in tutta la
stanza. Giulietta e Dappertutto scomparvero entro un fumo denso e puzzolente,
che usciva dalle pareti, spegnendo i lumi.
Infine
il chiarore dall’alba entrò dalle finestre. Erasmo si recò subito dalla moglie
e la trovò dolce e mansueta. Nel letto di lei il piccolo Rasmo era già sveglio.
Porse la mano al marito stremato dicendo:
«Ora
conosco tutto il male che ti è successo in Italia e ti compiango di tutto
cuore. Grande è il potere del nemico e poiché egli conosce tutti i vizi, sa
fare anche il ladro e non ha saputo resistere neppure al desiderio di portarti
via in modo così malvagio la tua bella e somigliante immagine riflessa.
Guardati dunque in quello specchio, mio caro!»
Spikher guardò tutto tremante e con aria
miserevole. Limpido e chiaro rimase lo specchio: Erasmo Spikher non vi
appariva.
«Questa
volta» continuò la moglie «è bene che lo specchio non rimandi la tua immagine,
perché hai un’espressione molto stupida, caro Erasmo. D’altra parte non ti sarà
difficile capire che, senza immagine riflessa, sarai il ludibrio della gente e
quindi non potrai essere un bravo e perfetto padre di famiglia che imponga
rispetto alla moglie e ai figli. Il piccolo Rasmo vuole già farsi beffe di te e
ha intenzione di dipingerti in viso con il carbone un paio di mustacchi: tanto
tu non te ne puoi accorgere. Va’ dunque ancora per il mondo per un certo tempo
e cerca di farti restituire dal diavolo la tua immagine riflessa. Quando la
ritroverai, allora di tutto cuore sarai il benvenuto. Dammi un bacio» Spikher
glielo diede «ed ora... buon viaggio! Ricordati di mandare qualche volta un
paio di nuovi calzoncini a Rasmo: ne ha bisogno perché è abituato a trascinarsi
sulle ginocchia. E se vai a Norimberga, acquista, da buon padre, un ussaro
colorato e un dolce di pan pepato. Addio, caro Erasmo!»
La
moglie si voltò sul fianco e si addormentò.
Spikher sollevò il piccolo Rasmo e se lo
strinse al petto; ma questi si mise a gridare. Spikher allora lo mise giù e
partì per il vasto mondo. Una volta si incontrò con Peter Schlemihl, che aveva
venduto la propria ombra. Deliberarono di farsi compagnia, cosicché mentre
Erasmo Spikher gettava la
necessaria
ombra, Peter Schlemihl rifletteva la dovuta immagine. Ma non se ne fece nulla.
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